Questo BLOG è il risultato di una vasta ricerca sulle maggiori religioni diffuse nel mondo. Qui potrete trovare una spiegazione obbiettiva delle credenze, delle divinità e del pensiero dei vari culti.

lunedì 27 aprile 2009

ISLAMISMO

L'Islam (in arabo إسلام da pronunciare "Islàm", che significa sottomissione, abbandono [a Dio]), chiamato anche Islamismo, è una religione monoteista sorta a Mecca (Penisola Araba) nel VII secolo d.C. in seguito alla predicazione di Maometto/Muhammad (in arabo ﻣﺤﻤﺪ, italianizzato in Maometto, immagine a sinistra), considerato l'ultimo e definitivo profeta inviato da Dio (in arabo الله, Allāh) al mondo intero, cioè a tutti i popoli, incluse le comunità religiose precedenti. Secondo i musulmani, la parola 'Islàm' non si riferisce solamente alla religione istituita da Muhammad, bensì denota, in essenza, il rapporto di subordinazione che caratterizza tutte le religioni rivelate (es. Giudaismo, Cristianesimo). Per inciso, nel Corano si descrivono i profeti Abramo, Mosè, Gesù come profeti dell'Islam.
Quali siano stati i modelli ispiratori è ancora argomento di discussione fra gli storici delle religioni. Se infatti si parla, talora semplicisticamente, di debiti nei confronti del Giudaismo e dello stesso Cristianesimo orientale e, più ancora, delle comunità ebraico-cristiane attive nella stessa penisola Araba - debiti per molti versi e in diversa misura del tutto innegabili - non manca però chi sostiene, non senza ragione, l'esistenza di una matrice indigena sud-arabica che affrancherebbe l'Islam da una sorta di tutela puramente allogena. Del resto non sono episodiche le prove, epigrafiche, artistiche (statuaria votiva) e archeologiche, circa l'esistenza di culti monoteistici negli ambienti culturali sud-arabici e il loro lento accostamento a forme sempre più spiccatamente monoteistiche. Assieme a Ebraismo e Cristianesimo, l'Islam viene classificato come religione abramitica.
Quanto al lessico impiegato, se in contesti linguistici diversi da quello italiano la differenza fra il termine Islam e Islamismo è abbastanza sfumata, in Italiano una diversità sostanziale invece esiste, perché con la parola Islam s'intende quell'insieme di atti di fede, di pratiche rituali e di norme comportamentali che è praticato da sunniti e sciiti che, insieme, rappresentano quasi il 99% dei fedeli musulmani, mentre il termine Islamismo indica di fatto una concezione dell'uomo e del mondo che s'ispira ai valori dell'Islam ma che si esprime a livello politico.
I Pilastri dell'Islam
Gli arkān al-Islam ("Pilastri dell'Islam") sono quei doveri assolutamente cogenti per ogni musulmano osservante (pubere e sano di corpo e di mente) per potersi definire a ragione tale. La loro intenzionale evasione comporta una sanzione morale o materiale. Essi sono:
la shahāda, o "testimonianza di fede" (affermazione, rettamente intenzionata, che esiste un solo Dio e che Maometto è il suo profeta);
la zakāt, o versamento a scopo pio di un'imposta di "purificazione" della ricchezza, attualmente devoluta volontariamente a organizzazioni di carità o aventi come fine l'islamizzazione all'interno o all'esterno dei paesi islamici;
la ṣalāt, preghiera canonica da effettuare 5 volte al giorno, in precisi momenti (awqāt) che sono scanditi dal richiamo del muʾadhdhin (مؤذن, muezzin) delle moschee;
ṣawm ramaḍān, ﺻﻮﻡ ﺭﻣﻀﺎﻥ, ovvero digiuno del mese di Ramadan per chi sia in grado di sostenerlo;
Ḥajj, ﺣﺞ, pellegrinaggio canonico nel mese di Dhū l-hijja a Mecca e dintorni, anch'esso per chi sia in grado di sostenerlo fisicamente ed economicamente.
Obblighi morali e sociali
Oltre a questi obblighi, il musulmano ha il diritto-dovere di assolvere al jihād, ﺟﻬﺎﺩ, l' "impegno sulla strada di Dio", nella speranza di vedere nell'Aldilà il Suo Volto, che si esprime - nella sua forma principale (detta "maggiore") nella lotta contro le proprie pulsioni negative del corpo e dello spirito. Come "jihād minore" s'intende invece la continua ricerca di espandere i confini fisici e spirituali della Umma. Combattere contro chi vi si oppone con forza può assumere forme violente.
Il "jihād maggiore" costituisce il sesto pilastro dalla scuola giuridica (madhhab) sunnita del Hanbalismo e dall'intero Sciismo. Per spiegazioni più dettagliate si rinvia al relativo lemma.
Generico obbligo è il compiere il bene e combattere il male ovunque essi si trovino, ricorrendo a ogni mezzo lecito e necessario (con la mano, la parola, la penna o la spada), laddove il bene e il male sono determinati esplicitamente da Dio nel Corano, dovendosi intendere come Bene la sua volontà e Male il disobbedirgli.
Nessuna "teologia naturale" è ammessa, che possa far presumere all'intelligenza umana di penetrare razionalmente i confini tra il Volere di Dio e la Sua non-Volontà, essendo la creatura umana tenuta ad assoggettarsi senza distinguo al dettato coranico. In senso letterale, la parola "Islàm" significa infatti sottomissione, abbandono o obbedienza a Dio. Abbandono a un Progetto divino che concerne l'umanità intera e che l'uomo non può conoscere per la sua intrinseca limitatezza, al quale tuttavia esso si dovrà abbandonare, fiducioso della bontà e della misericordia divina.
Dio - al contrario di quanto pensavano i mutaziliti - non concede il libero arbitrio all'uomo, essendo ogni atto (compreso quello umano) creato da Dio. Egli dà all'uomo tutt'al più il possesso ( iktisāb ) dell'atto compiuto e il presumere di poter creare qualcosa o di penetrare l'insondabile Volontà divina sono peccati di massima superbia, con la conseguenza che il Volere divino dovrà essere accettato senza condizione alcuna da parte delle Sue creature.
Questo avviene non solo nelle pratiche di culto (modalità minuziose nell'assolvimento della preghiera, senza osservare con precisione le quali l'obbligo non si considera convenientemente assolto; precise ritualità da osservare nel corso del pellegrinaggio obbligatorio a Mecca e nei suoi dintorni) ma anche nell'ottemperare alle precise e cogenti norme alimentari che, secondo lo schema vetero-testamentario, non si giustificano con motivazioni di carattere razionale, in grado cioè di essere percepite dall'intelligenza umana, ma che devono essere accettate come tutto il resto "senza chiedersi il come e il perché" (bi-lā kayfa).
Scuole teologiche e culto
Le correnti principali dell'Islam non ammettono né riconoscono clero e tanto meno gerarchie (indirettamente una forma di ambiente clericale esiste però nell'ambito sciita) dal momento che si crede non possa esistere alcun intermediario fra Dio e le Sue creature. Ognuno è quindi sacerdote di se stesso e responsabile dei suoi errori. Questo fa sì che il discrimine fra quanto è considerato consono all'Islam e quanto gli è contrario potrà scaturire solo dall'approfondito dibattito fra esperti "dottori" (ulamā). Esiste pertanto un pluralismo di scuole giuridiche e teologiche, con numerose diverse interpretazioni di una stessa fattispecie (salvo, ovviamente, nel caso degli assetti dogmatici che non sono discutibili e contestabili per non incorrere nella pronuncia di kufra (infedeltà massima) che fa conseguire la qualifica di "eretico" (kāfir, pl. kāfirūn ). Tutte le cosiddette "scienze religiose" (ulūm dīniyya ) tendono alla formazione di un consenso maggioritario ( Ijmā ) circa la via interpretativa da dare al disposto coranico e sciaraitico. Essa però potrà sempre mutare in caso si esprima una nuova maggioranza.
Mentre il culto è immutabile ed indifferente all'epoca ed allo spazio fisico in cui esso è praticato, tutto il resto potrà invece adattarsi al tempo e al luogo in cui il fedele vive. L'Islam si propone come una religione wusta, cioè "mediana" fra gli estremi. Equilibrata perché, per affermazione di Muḥammad, essa aborre gli eccessi e il fanatismo, basandosi sull'assunto, più volte ribadito, nel Corano che "Dio non ama gli eccessivi".
Testi fondamentali
I testi fondamentali a cui fanno riferimento i musulmani sono, in ordine di importanza:
il Corano, pur non essendo scritto esplicitamente è considerato dai musulmani espresso parola per parola, in arabo, da Dio (Allāh), come Sua Parola. I musulmani ritengono che Muhammad abbia ricevuto il Corano da Dio attraverso l'Arcangelo Gabriele, che glielo avrebbe rivelato in lingua araba; questa interpretazione è stata contestata, recentemente, da Cristoph Luxenberg[3], il quale - nel solco della corrente degli studiosi iper-scettici che fa capo a Wansbrough - considera invece che la composizione originale del Corano sia avvenuta in siro-aramaico. È per questo che i fondamentali atti liturgici islamici sono recitati in tale idioma in tutto il mondo musulmano. Dopo la Rivelazione ricevuta da Muhammad l'Islamismo crede, per dogma, che nessun altro profeta sarà più identificato da Dio fra gli uomini.
la Sunna (lett. "consuetudine"), basata su ḥadīth (tradizioni). Essa raccoglie i detti di Muhammad ed è rintracciabile nei Sei libri (al-kutub al-sitta), i più importanti dei quali sono quelli di Bukhārī e di Muslim ibn al-Ḥajjāj mentre gli altri furono composti da Ibn Māja, al-Nasāī, al-Tirmidhī e Abū Dāwūd al-Sījistānī. La Sunna raccoglie gli episodi della vita di Muḥammad, le sue parole e i suoi atti.
I musulmani credono che siano d'ispirazione divina, ma corrotti dal tempo o dagli uomini:
il Vangelo;
i Salmi;
la Tōrāh;
Il dilemma se trattare gli induisti come politeisti cui offrire l'opportunità fra conversione o morte fu superata grazie all'interpretazione di numerosi dotti musulmani, secondo cui anche i Veda sarebbero stati un testo d'origine divina, per quanto particolarmente corrottisi.
Profeti
I musulmani dichiarano che la loro religione si riallaccia direttamente alle tradizioni religiose che sarebbero state predicate dal patriarca biblico Abramo, considerato da Maometto come il suo più autorevole predecessore. È per questo che, in chiave puramente formale, l'Islam viene classificato come religione abramitica, al pari dell'Ebraismo e del Cristianesimo.
Il primo profeta islamico sarebbe peraltro stato Adamo e, dopo di lui, Nūḥ (Noè). Sono annoverati fra i tanti profeti islamici, dopo Ibrāhīm (Abramo), i suoi figli Isḥāq (Isacco) e Ismāīl (Ismaele), Yaqūb (Giacobbe), Yūsuf (Giuseppe), Mūsā (Mosè), Dāwūd (Davide), Sulaymān (Salomone), Yaḥyā (Giovanni Battista) e, prima di Muḥammad, Īsā ibn Maryam, Gesù di Nazareth, (vedi Gesù secondo l'Islam) figlio di Maryam, (Maria), considerata nel Corano come esempio sublime di devozione femminile a Dio.
Dopo Muḥammad, chiamato per questo "il sigillo dei profeti" ( khāṭim al-rusul ), la profezia avrebbe avuto termine.
Gruppi religiosi
I musulmani vengono differenziati in:
Sunniti, che sono la grande maggioranza in quasi tutti i paesi islamici.
Sciiti, che costituiscono la minoranza più consistente (circa il 10%). Essi si richiamano all'eredità di Alī ibn Abī Ṭālib, cugino e genero di Muḥammad, e dei suoi figli al-Ḥasan b. Alī e, più in particolare, di al-Ḥusayn b. Alī.
Gli sciiti si dividono a loro volta in:
un gruppo maggioritario (duodecimano, o imamita o ithnaashariyya),
un gruppo minoritario (ismailita, o settimano o sabaiyya)
un gruppo ancor più esiguo, detto "zaydita", che teorizza la possibilità che a guidare legittimamente la Comunità Islamica (Umma) possa essere qualsiasi discendente del Profeta purché questi agisca concretamente contro i musulmani usurpatori del califfato e reprobi, con deciso impegno militante e che non lasci spazio a un comodo quietismo limitato a un'attività puramente teoretica.
Dominante in Iran, lo sciismo è maggioritario in Iraq, in Libano e in Bahrein.
Gruppi di ismailiti sono presenti in India mentre lo Zaydismo è prevalente in Yemen.
Kharigiti, un tempo abbastanza diffusi, specialmente in Nordafrica, Iraq e Penisola Araba, si dividevano in numerosi sottogruppi - sufriti, Azraqiti, Najadāt, Nukkariti - di cui sussistono solo gli Ibaditi
Di derivazione islamica ma considerati eterodossi sono invece:
gli Alawiti, appartenenti a una setta minoritaria d'ispirazione sciita ma con forti tratti gnosticheggianti. Esprime il gruppo dirigente in Siria fin dall'epoca del Presidente Ḥāfiẓ al-Asad.
i Drusi, sorti in età fatimide, all'epoca dell'Imàm al-Hākim e presenti in Libano, nella regione montagnosa dello Shūf, in Siria (Golan, Gebel Druso) e Israele.
gli appartenenti all'Aḥmadiyya di Qādyān (India settentrionale) e Lahore (Pakistan), fondata da Mirza Ghulam Ahmad.
I Bahá'í, a loro volta gemmati dal Babismo, costretti dalla Rivoluzione Islamica dell'Iran a rifugiarsi in India e in Occidente (soprattutto Canada e Stati Uniti). Sono considerati tuttavia appartenenti a una religione completamente distaccata dall'Islam, e non una sua setta.
l'Ahl-e Haqq.

SUNNITI
Sunnismo, orientamento nettamente maggioritario dell'Islam - circa il 90% dell'intero mondo islamico - che prende il suo nome dal termine arabo "Sunna" (consuetudine), riferita al profeta dell'Islam Muhammad e ai suoi Ṣaḥāba (Compagni).
Nato buon ultimo nella discussione teologica islamica, il Sunnismo si differenzia essenzialmente dallo Sciismo (organizzatosi come dottrina prima del Sunnismo) per il suo netto rifiuto di riconoscere la pretesa degli Sciiti che la guida della Comunità islamica ( Umma ) dovesse essere riservata alla discendenza del profeta Muḥammad attraverso sua figlia Fāṭima bt. Muhammad e suo cugino Alī ibn Abī Ṭālib.
Secondo il Sunnismo invece alla guida politica e spirituale (non strettamente religiosa però) della Comunità poteva accedere qualunque musulmano pubere, di buona moralità, di sufficiente dottrina e sano di corpo e di mente. Il fatto di essere Meccano o, almeno, Arabo, era un elemento preferenziale ma non essenziale.
Sotto questo profilo il Sunnismo respingeva quindi decisamente la pretesa dei kharigiti che la guida della società islamica fosse riservata al migliore dei credenti: qualità difficile da individuare e ancor più difficile da mantenere, perché un semplice peccato, anche non grave, avrebbe fatto perdere tale qualità all'Imam ("Guida", ma intesa qui come sinonimo di califfo) e lo avrebbe fatto decadere dal suo supremo ufficio.
Le differenze politiche furono mascherate dalla discussione teologica riguardante chi potesse essere qualificato musulmano e la natura del peccato, se esso cioè fosse o meno in grado di far perdere la qualifica di credente.

I primi a riflettere sulla questione del peccato e della qualifica di musulmano (muslim), di empio (fāsiq), di miscredente (kāfir) e di ipocrita (munāfiq) — chi si atteggia cioè per convenienza a musulmano non condividendone però nel profondo il portato — furono dunque i kharigiti, allontanatisi dal resto dei musulmani contendenti nella battaglia di Siffīn che contrappose il quarto califfo Alī ibn Abī Ṭālib al governatore di Siria Muāwiya ibn Abī Sufyān. Rispetto alla rigida convinzione del Kharigismo dove si affermava che il peccato facesse perdere la natura di vero credente, i Sunniti affermarono invece la loro convinzione che il peccato non facesse decadere il musulmano dalla sua condizione di credente, ma che egli si venisse a trovare in una condizione "mediana" fra la posizione del miscredente e quella del musulmano fintanto che la consapevolezza di aver peccato, il suo pentimento e l'implorazione di perdono rivolta sinceramente a Dio non lo riportassero alla condizione di vero credente.
È in questo contesto dottrinario e politico che la maggioranza dei musulmani non kharigiti, sciiti o mutaziliti volle darsi un'identità religiosa precisa abbracciando il pensiero del giurista e teologo Ahmad ibn Hanbal al quale si deve il conio dell'espressione "Ahl al-sunna wa l-jamāa" (gente che segue la tradizione [del profeta Muhammad] e che vuole restare unita, evitando le scissioni dal corpo unico della Umma).
Nel sunnismo (che progredì grazie agli scritti, tra gli altri, di al-Asharī, dell'Imām al-Haramayn al-Juwaynī e di al-Baqillānī) si riconoscono le quattro scuole giuridiche (madhhab, pl. madhāhib) del hanafismo, malikismo, sciafeismo e hanbalismo.
Tra Sunnismo e Sciismo, con l'andar del tempo, si sono create differenze in campo puramente giuridico (ad es. il cosiddetto "matrimonio a termine" è ammesso dallo Sciismo ma non dal Sunnismo), ma tali differenze non hanno mai intaccato la consapevolezza di aderire a un comune assetto dogmatico. Sunniti e Sciiti si ritengono quindi vicendevolmente musulmani a pieno titolo (pur restando ognuna delle parti convinta che l'altra parte sia in errore sulla questione dell'imamato), mentre entrambi considerano senz'altro eretico il Kharigismo.

SCIITI
Con il termine Sciismo si indica il principale ramo minoritario dell'Islam.
Caratteristiche
I musulmani sciiti devono il loro nome all'espressione "shīat Alī" (fazione di Alī), sovente abbreviata semplicemente in "Shīa". Si sono divisi dai sunniti in seguito all'assassinio perpetrato dalle forze califfali omayyadi ai danni di al-Ḥusayn b. Alī, figlio di Alī b. Abī Ṭālib, avvenuto nel 680 a Karbalā, in Iraq, diventata per questo la seconda città santa sciita, dopo Najaf in cui fu sepolto suo padre, primo Imām sciita e quarto califfo dell'Islam.
Gli sciiti si differenziano dai sunniti sulla questione della guida (imamato) della comunità islamica (Umma), dal momento che considerano unica legittimata a regnare la Famiglia del profeta Muḥammad (Ahl al-Bayt), mentre per i sunniti qualsiasi fedele di media capacità religiosa, non necessariamente discendente del Profeta, può guidare a pieno titolo un governo islamico.
Col tempo gli Sciiti si sono differenziati dai sunniti anche su alcuni istituti giuridici (ammettono, ad esempio, la legittimità del matrimonio a tempo prefissato (muta) e una parte di essi considera che dal Corano raccolto all'epoca del califfo Uthmān b. Affān siano stati espunti alcuni passaggi e una sura intera (la surat al-wilāya, ovvero "capitolo della luogotenenza") che attestavano la designazione a succedergli, fatta da Muḥammad in favore di Alī), mentre altri sciiti non arrivano a dichiarare tanto. La prima affermazione fu sostenuta ad esempio da Muḥammad ibn Yaqūb al-Kulaynī (vissuto nel X sec.) che, nel suo Uṣūl al-Kāfī, [basandosi] sull’autorità di Jābir [affermò]
« Ho sentito Abū Jafar dire: «Chiunque fra la gente [di fede islamica] pretenda di aver collazionato l’intero Corano come Allāh l’ha rivelato, è un mentitore. Solo Alī e gli Imām dopo di lui l’hanno raccolto e mandato a memoria come Allāh l’aveva rivelato» »
« Jābir riferisce di aver ascoltato l’Imām [Muḥammad al-]Bāqir[1] dire: «Nessuno può rivendicare di aver compilato il Corano così come Allah l’ha rivelato, a meno che non sia un bugiardo. La sola persona che l’ha compilato e memorizzato secondo la sua rivelazione è stato Alī ibn Abī Ṭālib e gli Imām che sono venuti dopo di lui». »
Affermazioni non dissimili sono riscontrabili nel Tafsīr al-Shāfī min kitāb al-kashshāf di Tabrisī.
Un'altra parte dello sciismo nega invece che il Corano sia stato in qualche modo alterato per odio nei confronti della Ahl al-Bayt e si rifà per questo all'autorità di Abū Jafar Muḥammad b. Alī Ibn Bābawayh, detto al-Ṣadūq (Il grandemente veritiero):
« La nostra fede è che il Corano rivelato da Allāh al Suo Profeta Muḥammad è quello che sta tra le due copertine ( daffatayn ). Ed è quello che è in mano ai credenti, e non è più lungo… E colui che afferma che diciamo che è più lungo, è un mentitore". »
Tutte queste differenziazioni, non toccando alcun punto della dogmatica islamica, non legittimano dunque che (come fanno più di recente le fazioni più estremiste del sunnismo wahhabita) si parli per essi di eresia, ma solo di una variante dell'Islam.
Lo sciismo, minoritario in termini assoluti (tra il 6 e l'11% dei fedeli musulmani di tutto il mondo), è maggioritario in Iraq, in Libano e in alcune aree del Golfo Persico e del tutto dominante in Iran, dove lo sciismo fu forzatamente imposto dalla dinastia dei Safavidi (1501-1722).
Origine dello sciismo
Etimologicamente, il termine sciismo viene da shīat Alī, il partito di Alī. La parola shīa è altresì riportata diverse volte nel Corano per indicare l’affiliazione alla scuola di pensiero di personaggi, sia positivi che negativi, dei Libri Sacri, come i profeti Abramo e Mosè da una parte e Faraone dall’altra.
Alla morte di Muḥammad, nel 632, la questione della sua successione fu all’origine della più grande divisione all’interno dell’Islam. I discepoli di Alī ibn Abī Ṭālib, indicati anche dal Profeta con il termine di sciiti, ritenevano che gli unici legittimati ad esercitare il potere fosse l' Ahl al-Bayt, la "Gente della Casa"" (la famiglia del Profeta), e che dunque Alī, la loro Guida, sulla base delle indicazioni fornite dal Profeta (vedi Ghadīr Khum), fosse l’unico successore legittimo. Essi sostenevano che il ruolo di Imam (guida religiosa) e Califfo (autorità politica) dovessero cumularsi in un’unica persona, ma dovettero riconoscere come primo Califfo Abū Bakr, eletto dal resto della comunità (umma).
La disputa sembrò ricomporsi con l’accesso di Alī al Califfato dopo la morte violenta del 3° Califfo Uthmān ibn Affān. (Egli fu dunque quarto Califfo per i sunniti e primo Imām per gli sciiti). Ma il suo potere fu contestato da Muāwiya ibn Abī Sufyān, governatore omayyade della Siria, che gli si ribellò apertamente. Alī fu assassinato nella moschea di Kufa da un seguace del kharigismo.
I suoi discepoli riposero allora tutte le loro aspettative sui suoi due figli, al-Ḥasan ibn Alī e al-Ḥusayn ibn Alī. Ḥasan fu indicato da Alī come suo successore all’Imamato, ma fu costretto a sciogliere il suo esercito e accettare un accordo con Muāwiya, stipulando però con lui un patto secondo il quale, alla morte di questi, il potere sarebbe tornato ad al-Ḥasan o, in sua mancanza, a suo fratello al-Ḥusayn.
Ma Muāwiya, contravvenendo al patto, nominò suo figlio Yazīd per la successione al Califfato. al-Ḥasan nel frattempo era morto, forse avvelenato dallo stesso Muāwiya, ed al-Ḥusayn, che ne aveva ereditato l’Imamato, rifiutò categoricamente di giurare fedeltà a Yazīd, sia per questione di legittimità, sia per una pretesa indegnità mostrata dallo stesso. Messo di fronte alla scelta tra la sottomissione o lo scontro, al-Ḥusayn intese raggiungere la città irachena di Kufa, dove gli alidi erano molto forti e gli avevano promesso il loro sostegno.
Ma le truppe califfali intercettarono al-Ḥusayn a Kerbelā, sulla strada per Kufa, impedendogli anche l’accesso all’acqua dell’Eufrate. al-Ḥusayn, con soli 72 combattenti (gli abitanti di Kufa erano stati nel frattempo duramente repressi e si guardarono bene dall'intervenire in suo soccorso), dovette fronteggiare l'assai maggiore contingente armato califfale spedito dal wālī di Kufa e l’esito non poteva essere altro che la morte sua, dei suoi familiari e dei suoi discepoli. La battaglia di Kerbelā, del 680, segnerà la definitiva rottura tra gli sciiti ed il resto della comunità che più avanti prenderà il nome di Ahl al-Sunna (da cui il nome attuale di Sunniti).
Il destino tragico di al-Ḥusayn scosse le coscienze dei musulmani e accrebbe la determinazione a lottare per l’ideale di un potere giusto e rispettoso dei principi fondamentali dell’Islam originario. Il martirio divenne il simbolo della lotta contro l’ingiustizia. Il senso dello sciismo è in questo massacro e quindi nel culto dei martiri. Tutti i discendenti di al-Ḥusayn, ovvero gli Imam dell’ Ahl al-Bayt, la Famiglia del Profeta, ebbero un destino tragico, fatto di prigionia e avvelenamenti. Per gli sciiti, gli Imam sono le guide, i custodi del Libro. La loro legittimità non deriverebbe dalla discendenza carnale dal Profeta, ma dalla loro eredità spirituale; essi ebbero una conoscenza del significato del Corano e ne spiegarono il senso esoterico ( bātin ) ai fedeli.
Il dodicesimo Imam di questa catena di successione iniziata con Alī e proseguita con al-Ḥasan e al-Ḥusayn, sfuggì alla repressione del califfo di turno occultandosi nell’874. Questo fenomeno sovrannaturale mise dunque termine alle rivendicazioni sul potere temporale e dette una dimensione fortemente escatologica e religiosa allo sciismo. Gli sciiti duodecimani, ovvero coloro che prestano fede a tali dodici Imam, da quel momento in avanti accettarono passivamente l’ordine politico stabilito, nell’attesa della parusia del 12° Imam che, alla fine dei tempi, tornerà a manifestarsi e a ristabilire la giustizia in Terra. In questa attesa, nessun potere politico è pienamente legittimo. La "Rivoluzione Islamica" del 1979 in Iran ha in parte modificato questo atteggiamento, stabilendo il potere del giurisperito ( velāyat-e faqih ) che, pur non esente da difetti ed errori, cerca di creare e gestire una società islamica quanto più giusta possibile e preparare le condizioni per il ritorno dell’Imam Atteso.
Particolari dottrinali
Lo sciismo è basato su cinque fondamenti dottrinali:
il Monoteismo (Tawḥīd);
la Profezia (Nubuwwa);
l’Imamato (Imāma);
la Resurrezione (Maād);
la Giustizia di Dio (Adl).
I Cinque Pilastri (Professione di Fede, Preghiera, Elemosina, Digiuno e Pellegrinaggio) sono ugualmente riconosciuti – il primo coincide d’altronde con il Monoteismo – ma considerati e definiti come “Obblighi di Fede”.
Monoteismo
Lo sciismo riconosce, come tutte le altre scuole islamiche, l’Unità Divina e il testo sacro del Corano. Esso considera che il Corano abbia un senso evidente ed uno nascosto, senza comunque che il secondo annulli o pregiudichi il primo, e che il testo sacro vada studiato anche esotericamente. Gli Imām sono gli incaricati di insegnare ai fedeli più ricettivi questa gnosi.
Profezia
Lo sciismo riconosce il Profeta Muḥammad ed attribuisce a lui e agli altri Profeti biblici la qualità dell’infallibilità assoluta (iṣma ) mentre il sunnismo gliela riconosce solo in materia di fede. Per infallibilità assoluta si intende la totale astensione dai peccati, sia maggiori che minori, e dagli errori nel ricevere e trasmettere la Rivelazione.
In aggiunta i Profeti hanno il dovere di provare agli uomini la provenienza divina del loro messaggio e per questo compiono miracoli. Il miracolo più grande dell'ultimo Profeta dell'Islam è il Corano stesso la cui conoscenza gli venne trasmessa direttamente nel cuore senza l'intermediazione dei sensi.
Imamato
È l’articolo di fede che più caratterizza lo sciismo. Dio non volle permettere che gli uomini si perdessero e per questo ha inviato loro i Profeti per guidarli. Ma la morte di Muḥammad mette fine alla catena profetica iniziata con Adamo e continuata con Abramo, Mosè e Gesù. Occorreva dunque un garante spirituale della condotta degli uomini che fosse e desse prova della veracità della religione e dirigesse la comunità. Questi è l’Imām, la Guida. Egli deve soddisfare un certo numero di condizioni: conoscere la religione, essere giusto ed esente da difetti, in altre parole essere il migliore del suo tempo. Egli viene investito dallo stesso Profeta e quindi dall’Imam che lo ha preceduto.
Contrariamente ai sunniti, dunque, gli sciiti affermano che la comunità, dopo la morte del Profeta, doveva essere guidata da Alī, suo cugino e genero avendone sposato la figlia Fāṭima, e dal Profeta nominato primo Imām. E i discendenti di Alī dovevano esserne gli eredi nell’Imamato. Questa rivendicazione in origine possedeva un carattere esclusivamente politico-religioso, ma nel tempo è venuta a rappresentare un aspetto fondamentale della teologia sciita. La concezione dell’Imamato da parte degli sciiti, diversamente dal Califfato contemplato dagli altri musulmani, incarna sia l’autorità temporale che quella spirituale, ed è considerato la continuazione del ciclo della profezia.
A questo proposito c’è da fare una precisazione riguardo al concetto di Sunna. Si intende per Sunna tutto il corpus di leggi e consuetudini derivanti da ciò che il profeta Muḥammad disse, fece, omise di dire e di fare, cui alluse ecc. Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, non sono però solo i sunniti a seguire la Sunna, come il nome potrebbe indurre a credere, perché altrettanto fanno gli sciiti. La differenza sta in primo luogo nelle catene di trasmettitori, ovvero nelle fonti di tale Sunna. I sunniti ne privilegiano alcune, gli sciiti talora altre. In secondo luogo, i sunniti considerano Sunna anche le integrazioni apportate dai primi Califfi, e gli Sciiti fanno altrettanto con le integrazioni apportate dai primi dodici Imam. I trasmettitori usati dagli uni sono considerati inaffidabili o addirittura mentitori dagli altri e viceversa.
Secondo gli sciiti, i primi dodici Imām, investiti in tale ruolo da Dio stesso, dal Profeta o dall’Imam precedente, sono stati rappresentanti infallibili di Dio stesso su questa terra e custodi della Rivelazione. L’infallibilità è dovuta al fatto che l’Imam trae la sua autorità da Dio e non potrebbe impartire insegnamenti minati dal dubbio dell’errore.Dopo l’occultazione del 12° Imam quest’infallibilità viene meno e gli uomini sono dunque liberi in rapporto al potere temporale. Nello sciismo la prassi religiosa non è fissata ab eterno in tutti i suoi particolari e pertanto l’interpretazione (ijtihād) resta aperta e problemi nuovi possono essere risolti con nuove soluzioni.Alla fine dei tempi l’Imam nascosto si manifesterà ripristinando l’autorità legittima e la giustizia fra gli uomini.
Autorità religiose
Gli sciiti duodecimani riconoscono come maggiori autorità religiose i Marja al-taqlīd che possono essere più di uno: ciascun fedele deve sceglierne uno (o più di uno in alcuni casi) e seguirne i verdetti giuridici. Altri titoli delle autorità religiose sciite sono quelli di ayatollah (trad: segno di Allah), titolo che può coincidere con quello di marja, e ḥujjat al-islām (trad: prova dell’Islam), di grado inferiore al primo. I religiosi sciiti possono indossare il turbante bianco o nero. Quest’ultimo colore indica i sayyid ovvero i discendenti del Profeta Muĥammad.
Culto dei Martiri
Lo sciismo accorda una particolare importanza al culto dei martiri. Alī, al-Ḥasan e soprattutto al-Ḥusayn sono i più importanti. Per al-Ḥusayn si celebrano delle grandiosi manifestazioni di lutto e dolore collettivo per il giorno della sua morte, Ashurā, il 10 del mese di Muḥarram, e quaranta giorni dopo, Arbaīn.
Guglielmo da Tiro (XII secolo), paragonava questo culto a quello dei martiri cristiani, ed ancor oggi molte sono le assonanze con le cerimonie cristiane del Venerdì Santo.
Giustizia di Dio
Gli sciiti affermano che Dio è giusto e che non agisce mai ingiustamente. Di conseguenza ricompensa coloro che credono e compiono buone opere e punisce i malfattori. Per l'affermazione di tale principio l'uomo deve essere libero nella scelta delle proprie azioni ed è per questo che gli è stato conferito il libero arbitrio. Punto questo di divergenza con il sunnismo che ritiene Dio unico Creatore, e quindi anche degli atti dell'uomo.
Divisioni dello sciismo
Il gruppo sciita oggi maggiormente diffuso è quello dei cosiddetti Duodecimani (o Imamiti o Giafariti). Essi sono coloro che credono nell’Imamato dei Dodici Imām dell’ Ahl al-Bayt. Ricordiamo i nomi di questi 12 Imām:
Alī bin Abī Ṭālib, al-Murtaḍa;
al-Ḥasan ibn Alī, al-Mujtabā;
al-Ḥusayn ibn Alī, Sayyid al-shuhadā (il Signore dei Martiri);
Alī ibn al-Ḥusayn, Zayn al-Ābidīn, al-Sajjād;
Muḥammad ibn Alī, al-Bāqir;
Jafar ibn Muḥammad, al-Ṣādiq;
Mūsā ibn Jafar, al-Kāẕim;
Alī ibn Mūsā, al-Riḍā (in persiano: Reża);
Muḥammad ibn Alī, al-Taqī;
Alī ibn Muḥammad, al-Naqī;
al-Ḥasan ibn Alī, al-Askarī;
Muḥammad ibn al-Ḥasan, al-Mahdī.
Vi sono poi i cosiddetti Ismailiti o Settimani perché credono fino ad Ismāīl, considerato il settimo Imam dopo Jafar al-Ṣādiq. Sono diffusi nell’Africa Orientale, in India e nel mondo occidentale.
Gli Zayditi, diffusi nello Yemen, prendono il loro nome da Zayd, ritenuto quinto ed ultimo Imām dopo Alī Zayn al-Ābidīn.
Infine c’è la setta eterodossa degli Alawiti o Alevi, minoritaria ma al potere in Siria, presente in Libano e fortemente diffusa in Anatolia orientale.
Diffusione dello sciismo
A motivo del suo essere maggioranza assoluta in Iran, lo sciismo viene a torto indicato come la variante persiana dell’Islam. Niente di più sbagliato. Infatti, oltre al fatto che la culla dello sciismo è stato storicamente un paese arabo come l’Iraq, in cui si trovano i suoi maggiori santuari e che le differenziazioni abbiano tutte connotazioni religiose e politiche e nient’affatto etniche, c’è da rilevare come esso sia diffuso - sia pure in senso fortemente minoritario - in tutti i luoghi ove vi sono musulmani e come in alcuni paesi arabi esso sia massicciamente presente.
Oltre che in Iran, infatti, dove lo sciismo ha la maggioranza assoluta, esso è maggioritario in Iraq e nel Bahrain; alte percentuali di sciiti si trovano in Libano, nello Yemen (zayditi) e in Kuwait. Forti minoranze sono presenti anche in Arabia Saudita e Siria (alawiti), mentre negli altri paesi arabi gli sciiti sono fortemente minoritari.Fuori dal mondo arabo, forti minoranze si trovano in Turchia (alawiti), Afghanistan, Pakistan e India.

Kharigismo
Il Kharigismo è un ramo dell'Islam, distaccatosi dagli altri all'epoca del quarto califfo Alī ibn Abī Ṭālib, in stretta correlazione con l'insurrezione del governatore di Siria Muāwiya ibn Abī Sufyān che reclamava giustizia per la morte di Othmān ibn Affān, suo stretto parente, e che si opponeva verosimilmente alla deposizione disposta ai suoi danni da Alī.
Il Kharigismo come dissidenza politica
Lo scontro armato, scoppiato a Siffīn, fu bloccato da un gruppo di seguaci di Alī che vollero si rispondesse positivamente alla richiesta dei sostenitori del governatore, che pare stesse soccombendo. Costoro invocarono infatti nel corso della battaglia una risoluzione "pacifica" del dissidio mediante un arbitrato fra le parti, che evitasse il proseguire della guerra civile e lo spargimento di sangue di credenti.
Nel corso della notte, però, tali seguaci del califfo tornarono sulla loro decisione perché convinti che solo la battaglia avrebbe permesso di decidere chi fosse dalla parte della ragione: se Muāwiya che marciava in armi contro l'autorità costituita per ottenere giustizia o il califfo che, per quanto tiepido nel rintracciare i mandanti dell'assassinio di Othmān, era pur sempre il "Comandante dei Credenti". Il "giudizio di Dio" che essi avevano quindi dapprima accondisceso a ricercare, fu da essi stessi considerata una ribellione contro il califfo da parte di persone che in quel modo non potevano essere più considerate musulmane e di cui era quindi lecito "versare il sangue".
Il loro slogan divenne pertanto Lā ḥikma illā li-llāh ("a Dio solo spetta il giudizio") e da qui provenne anche l'altro loro nome di "Muḥàkkima" (Quelli del giudizio [di Dio]).
Il califfo tuttavia non volle accedere a questa nuova richiesta, avendo perso l'iniziativa e vedendo i suoi soldati demotivati cosicché quel gruppo di suoi iniziali sostenitori - scandalizzato dalla rinuncia di 'Alī al suo dovere di guidare al bene i musulmani e contrastare il male - decise di abbandonare le file del suo esercito e di recarsi nella cittadina di Harūra (da cui il nome di Haruriti preso dagli scissionisti) per discutere sul da farsi.
Il Kharigismo come dissidenza teologica
Era nata la prima riflessione teologica all'interno della Umma islamica, nemmeno 30 anni dopo la morte del profeta Muhammad perché il quesito di fondo era in fin dei conti quello della qualifica del musulmano e se un musulmano che si fosse messo dalla parte dell'errore (come un ribelle alla legittima autorità califfale), e che quindi fosse un peccatore, potesse a buon diritto essere considerato ancora membro della Umma islamica o un apostata.
La loro risposta infine fu che il peccatore dovesse essere considerato decaduto dalla qualità di musulmano e, come murtadd (apostata) ne fosse lecito l'uccisione. Si orientava in tal modo il movimento a un radicalismo ideologico e politico che, malgrado un corposo afflato sociale in grado di affascinare chi si sentiva a qualsiasi titolo discriminato dalle autorità arabo-islamiche, condannerà il movimento a esser minoritario e spesso periferico.
I fuoriusciti dall'esercito califfale abbandonarono infine Harura - e da qui sembra sia venuta loro la denominazione di "Kharigiti" [in arabo Khawārij, dal verbo kharaja "uscire" - mentre secondo altri storici il termine sarebbe derivato dal loro avere abbandonato l'esercito alide, o anche l'aver propugnato l'attacco (kharaja vuol dire infatti anche "uscire all'attacco").
Tanto Alī quanto Muāwiya avevano a loro giudizio gravemente sbagliato e non potevano quindi essere più considerati appartenenti alla Comunità islamica. Di conseguenza era perfettamente lecito ucciderli e di fatto quello divenne il loro obiettivo, diventando acerrimi avversari sia degli alidi (più tardi sciiti) sia dei seguaci di Muāwiya (che più tardi furono considerati omogenei al ramo prevalente dell'Islam che fu chiamato sunnismo).
Il Kharigismo come eresia islamica
Nel tempo il Kharigismo si differenziò in una serie di frange più o meno oltranzistiche (sufriti, azraqiti e najadāt, mentre gli ibaditi hanno una diversa collocazione nella cosiddetta "eresiografia" islamica. Le prime tre branche suddette arrivarono talora a prevedere la pena di morte anche per i parenti di quanti essi ritenevano apostati ma non mancarono nel loro atteggiamento speculativo di lasciar spazio a particolari interpretazioni dell'istituto califfale (non previsto d'altra parte né dal ]Corano, né dalla Sunna. Tipico esempio di questa forte capacità innovativa è, ad esempio, l'accettazione espressa dagli Shabībiyya di una guida politica e militare di una donna.
Un tratto infatti caratteristico del loro pensiero è sempre stato quello che - alla ricerca di chi fosse il buon musulmano (condannato però sempre a non peccare per non perdere la sua qualifica e la vita) e l'irreprensibile e miglior musulmano, unico in grado di diventare il loro Imām - non si dovesse richiedere altro che l'eccellenza morale, a prescindere dalla razza e dallo statuto giuridico personale (si diceva che potesse diventare Imām anche uno schiavo negro, con una punta d'involontario razzismo) e, come nel caso menzionato, dal sesso.
Da questo complesso quadro d'insieme scaturisce la difficoltà da parte dell'Islam sunnita e sciita (che insieme rappresentano circa il 99% dei musulmani del mondo) di etichettare teologicamente la riflessione e la pratica kharigita. Se non manca infatti chi include questo movimento all'interno delle normali - ancorché violente - dinamiche di confronto politico che da sempre hanno attraversato nei secoli il mondo islamico, non manca però neppure chi giudica eretico ( kāfir ) il fedele kharigita, se non altro per la sua drastica concezione del musulmano che fa sì che i movimenti più radicali, quali gli Azraqiti e i Sufriti (ma anche, in parte, i Najadāt, qualifichino a loro volta come "empio" ( kāfir ) quanti non si adeguino al loro peculiare modo di intendere la fede islamica, comportando per costoro il diritto-dovere di eliminare chi non sia includibile nella loro speciale categoria di "credenti". E l'ingiusta uccisione di un musulmano - a norma del Corano - è sanzionata esplicitamente e con la massima severità da Allah, facendo parte questa fattispecie (unitamente all'apostasia e all'adulterio conclamato) delle azioni umane per le quali Egli pone un preciso limite ( ḥadd ), con la dannazione nell'Aldilà del colpevole e, deduttivamente, con la condanna a morte da parte delle società che ai valori della sharīʿa intendano rifarsi.
Il Kharigismo oggi
Attualmente del Kharigismo sopravvive la sola frangia ibadita, tanto moderata (e per questo sopravvissuta) da essere praticamente indistinguibile dai restanti musulmani - tanto da rifiutare essa stessa l'etichetta "kharigita" - salvo che per il particolare richiamo alla preghiera (adhan|adhān) che usano. Sono presenti nel Sultanato dell'Oman (dove s'erano insediati fin dal 686) e in alcune parti del Nordafrica: la regione dello Mzab in Algeria, il Gebel Nefusa in Tripolitania (Libia) e nell'isola tunisina di Jerba, oltre che a Zanzibar.
Concezione del mondo
Questa dottrina esposta è la tradizionale concezione dell'Islam elaborata dai pensatori musulmani nei primi cinque secoli (il Corano non ne fa infatti il minimo accenno). Il mondo sarebbe diviso per essa in tre parti
La Casa della Pace, "Dār al-Salām" o "Dār al-Islām", "la Casa dell'Islam", dove vivono i musulmani sotto la protezione della Legge islamica e i popoli sottomessi (dhimmī), appartenenti a fedi diverse da quella islamica e sottoposti al pagamento di un tributo personale, la jizya, che garantisce loro la "protezione" da parte dello Stato islamico.
Le interpretazioni dei teologi musulmani differiscono sulla possibilità di accettare come dhimmī fedeli di religioni differenti da quella dei cristiani, ebrei, zoroastriani e sabei ma, storicamente, si accettò anche l'Induismo come religione proteggibile, in quanto esso poteva vantare un testo scritto (i Veda) che fu considerato anch'esso ispirato divinamente.
La Casa della Tregua, "Dār al-Hudna", dove vivono i popoli non sottomessi con i quali è stata conclusa una tregua temporanea nell'attesa di riprendere le ostilità per l'affermazione universale dell'Islamismo.
La Casa della Guerra, "Dār al-ḥarb", dove vivono tutti i popoli non sottomessi.

TESTI SACRI
CORANO
Il Corano (in arabo al-Qurān [القرآن]), che letteralmente significa 'la lettura' o 'la recitazione salmodiata', è il testo sacro della religione dell'Islam. Per i musulmani il Corano, così come lo si legge oggi, rappresenta il messaggio rivelato quattordici secoli fa da Allāh (Dio) e destinato ad ogni uomo sulla terra a prescindere dalla sua affiliazione religiosa.
Struttura
Il Corano è diviso in 114 capitoli, detti sūre, a loro volta divise in versetti (sing. āya, pl. āyyāt), per un totale di 6236. Questo numero però varia per la redazione sciita che vi aggiunge infatti alcuni versetti e un'intera sura. Ogni sura partendo da quella iniziale incomincia con: "Nel nome di Dio il misericordioso, il clemente", un versetto che solo nella prima sura è conteggiato.
Divisioni: Hizb o Manzil
Col termine Ḥizb (lett. "parte") o Manzil (lett. "casa") viene indicata da più di un secolo ogni sessantesima parte del Corano, marcata da un simbolo particolarmente ornato, collocato al margine della copia coranica. Gli Ḥizb o Manzil risultano essere (ad esclusione della Sura al-fātiḥa, ovvero "Sura aprente" che apre l'elenco delle 114 sure), in funzione della diversa lunghezza delle Sure:
Manzil 1 = 3 Sure, i.e. 2--4
Manzil 2 = 5 Sure, i.e. 5--9
Manzil 3 = 7 Sure, i.e. 10--16
Manzil 4 = 9 Sure, i.e. 17--25
Manzil 5 = 11 Sure, i.e. 26--36
Manzil 6 = 13 Sure, i.e. 37--49
Manzil 7 = 65 Sure, i.e. 50--114
Qualora il Corano sia invece diviso in 30 porzioni, il termine indicato per ciascuna di esse è juz (lett. "parte"). Tale ripartizione (ben più anticamente attestata rispetto al Ḥizb / Manzil, permette che in ogni giorno del mese sacro di ramaḍān si possa così recitare un juz, completando l'intera lettura alla fine di tale mese lunare.
Sure meccane e medinesi
Le sure sono divise in meccane e medinesi, a seconda del periodo in cui furono rivelate. Le prime sono state rivelate prima dell'emigrazione (Egira) del profeta da Mecca (in arabo Makka) a Medina (in arabo Madīna), le seconde sono invece quelle successive all'emigrazione. Questa divisione non identifica peraltro il luogo della rivelazione, ma il periodo storico. In generale le sure meccane sono più brevi e di contenuto più intenso e immediato da un punto di vista emotivo (si racconta di conversioni improvvise al solo sentire la loro predicazione); le sure medinesi risalgono invece al periodo in cui il profeta Maometto era a capo della neonata comunità islamica ed esse sono caratterizzate da norme religiose e istruzioni attinenti alla vita della comunità.
Ordine delle sure
Le sure - aperte tutte, salvo la sura IX, dalla basmala (cioè la formula Nel nome di Allāh, il Clemente, il Misericordioso) - non sono disposte in ordine cronologico ma secondo la lunghezza, cosa che rende complicatissima un'accettabile comprensione del Testo Sacro islamico attraverso una lettura superficiale, anche se per i musulmani esse sono state disposte nell'ordine in cui furono insegnate al profeta Maometto dall'arcangelo Gabriele e quindi come il profeta le avrebbe successivamente recitate ai fedeli durante il mese di ramaḍān. L'ordine non riflette comunque la loro importanza in quanto per i fedeli dell'Islam esse sono tutte egualmente importanti.
Analizzando l'ordine delle sure da un punto di vista storico-sociologico, si può cercare l'influenza del periodo storico e del contesto in cui fu trascritto. Conducendo un'analisi laica, si può ipotizzare che il Corano fu così confezionato perché il contesto sociale imponeva che si fosse più attenti al lato politico del carisma del profeta, cioè come si era espresso a Medina, in un tempo cronologico più vicino a chi aveva assunto l’eredità religiosa e politica. Secondo questa ipotesi, questa struttura corrisponde ad un disegno preciso, coerente con le esigenze di un potere che aveva bisogno di dare un fondamento di autorità ai nuovi ordinamenti sociali e politici.
Letture del Corano
Malgrado ogni sforzo di fissare senza alcun errore per iscritto il testo delle rivelazioni, non poté essere tuttavia conservato al di là d'ogni dubbio, il ritmo delle frasi. Ciò era dovuto al fatto che la lingua araba non conosceva i punti d'interpunzione e ogni proposizione acquistava una sua autonomia solo tramite le congiunzioni "wa" e "fa" (quest'ultima marcante il cambiamento di soggetto rispetto alla proposizione precedente.
La buona fede dei musulmani può essere attestata dal fatto che, consci che l'esistenza o meno di una pausa può mutare il significato della stessa (valga l'esempio del noto adagio latino: Ibis redibis non morieris in bello), gli incaricati di redigere il testo non imposero, per mancanza di unanimità di consensi, una lettura che prevalesse rispetto alle altre concorrenti.
Tale diversità di "letture" ( qirāāt ) è ancora una delle caratteristiche delle copie stampate del Corano, che privilegerà questa o quella delle "letture". L'edizione commissionata in Egitto all'inizio del XX secolo da re Fuād I, decise che per quella che viene chiamata "edizione fua'dina" si usasse quella di Ḥafṣ b. Sulaymān b. al-Mughīra al-Asadī, avuta da Āṣim b. Abī al-Najūd di Kufa
Ibn Mujāhid ha documentato sette diverse letture, cui Ibn al-Jazrī ne aggiunse altre tre. Esse sono:
Ibn Āmir di Damasco (m. 736), trasmessa da Hishām e Ibn Zakwān
Ibn Kathīr di Mecca (m. 737), trasmessa da al-Bazzī e Qunbul
Āṣim di Kufa (m. 745), trasmessa da Shuba e Ḥafṣ
Abū Jafar al-Makhzūmī di Medina (m. 747), trasmessa da Ibn Wardān e Ibn Jammāz
Abū Amr b. al-Alā di Bassora (m. 770), trasmessa da al-Dūrī e al-Sūsī
Ḥamza di Kufa (m. 772), trasmessa da Khalaf e Khallād
Nāfi di Medina (m. 785), trasmessa da Warsh e Qalūn
al-Kisāī di Kufa (m. 804), trasmessa da Abū l-Ḥārith e al-Dūrī
Yaqūb al-Ḥaḍramī (m. 820), trasmessa da Ruways e Rawḥ
Khalaf di Kufa (m. 843), trasmessa da Isḥāq e Idrīs
Oltre ad esse ne furono accolte ancora altre quattro:
al-Ḥasan al-Baṣrī di Bassora (m. 728)
Ibn Muḥaysin di Mecca (m. 740)
al-Amāsh di Kufa (m. 765)
al-Yazīdī di Bassora/Baghdad (m. 817)
Il profeta "analfabeta"
Ancora diffusa in ambito occidentale, anche perché accreditata da parte di alcuni ambienti islamici, è la notizia secondo la quale Muḥammad era analfabeta.
Tale affermazione è stata accolta con favore in ambito non islamico (quasi a sottolineare l'inaffidabilità del profeta ultimo dell'Islam, dimenticando come la stragrande maggioranza dei profeti vetero-testamentari fosse ben lungi dall'essere acculturata) e curiosamente anche da una parte del mondo musulmano che, in tal modo, pensava di stroncare sul nascere la possibile accusa che il Corano fosse stato partorito dalla fertile e immaginifica fantasia di Muḥammad. Sotto il profilo stilistico-letterario, il Corano appare come un testo di indubbia bellezza e suggestione, ancorché varie volte oscuro e complesso da interpretare. Il fatto che il profeta fosse analfabeta marcava quindi un indubbio punto a favore della impossibilità che Muḥammad ne fosse stato l'autore.
La frase da cui è sorto questo problema è la stessa definizione coranica, laddove Muḥammad è definito al-nabī al-ummī. L'aggettivo ummī può infatti voler dire "analfabeta, illetterato" ma anche "nazionale, attinente al gruppo d'appartenenza". Dunque, anche "profeta degli arabi".
Occorre specificare che, se il senso di "analfabeta" si limita a sottolineare l'impossibilità di scrivere frasi, questo era senz'altro probabile, vista l'inesistenza di fatto della lingua araba scritta (quella parlata era invece assai ricca e complessa, come mostrano i componimenti poetici ed epici d'età preislamica), mentre se s'intende affermare che Muḥammad era "ignorante" questo è assai improbabile. Vissuto in tenera età nell'ambiente nomade (la cui facondia letteraria era ben nota), con la balia Ḥalīma, e quindi impegnato fin dall'età adolescenziale con lo zio a commerciare in Yemen e Siria, il bagaglio lessicale del profeta non doveva essere limitato all'universo tutto sommato localistico della sua città natale.
Lunghe furono le sue discussioni, i confronti e le diatribe avute a Medina con i dotti israeliti locali e mai l'accusa d'ignoranza gli fu rivolta dai suoi più accaniti rivali pagani (che semmai lo accusavano del contrario, di essere cioè il creatore del testo coranico che egli predicava).
Una qualche forma di scrittura dell'arabo in ogni caso esisteva alla sua epoca e, in questi limiti, si può senz'altro sostenere che Muḥammad sapesse scrivere. Firmò infatti alcuni documenti politici di grande importanza (Trattato di Ḥudaybiyya), non limitandosi a mettere una semplice sigla o il suo semplice nome, redasse lettere per i potenti della Terra (Negus etiopico, basileus bizantino e Shāhanshāh persiano-sasanide), oltre ad essere impegnato a scrivere un non meglio identificato "importante documento" da lasciare ai musulmani nel momento in cui morì.
La conservazione nel corso dei secoli
Secondo i musulmani il testo della rivelazione coranica (nella versione originale in lingua araba) è immutabile nel corso dei secoli; conseguentemente esso viene tramandato dai musulmani parola per parola, lettera per lettera. Non sono stati pochi i musulmani e le musulmane che in tutto il mondo e in tutti gli ultimi 14 secoli e oltre hanno imparato a memoria le centinaia di pagine in arabo che costituiscono il Testo Sacro. Questo processo è noto con il nome di Ḥifẓ, che significa conservazione. Una persona che ha memorizzato l'intero Corano si chiama Ḥāfiẓ (masch.) e Ḥāfiẓa (femm.). Memorizzare il testo del Corano è un modo per garantirne la preservazione nella sua forma autentica nel corso dei secoli.
Sebbene il Corano sia stato tradotto in quasi tutte le lingue, i musulmani utilizzano tali traduzioni solo come strumenti ausiliari per lo studio e la comprensione dell'originale in arabo; la recitazione liturgica da parte del fedele musulmano deve avvenire sempre e comunque in arabo, essendo il Corano "Parola di Dio" ( kalimat Allāh ). L'Islam professa infatti che è in questa lingua che la Rivelazione divina è stata trasmessa al profeta Maometto (italianizzazione di Muhammad) tramite l'Arcangelo Gabriele. Non bisogna quindi fare indebiti parallelismi tra Corano e Bibbia - salvo per la Tōrāh, rivelata in prima persona da Dio agli Ebrei - e tra Maometto e Gesù. Per il Cristianesimo la parola di Dio è Gesù Stesso; per l'Islam la Parola di Dio è il Corano, mentre il profeta Muhammad rappresenta il semplice strumento attraverso cui la rivelazione del Corano all'umanità è avvenuta.
Nel corso del periodo che va approssimativamente dal 610 d.C. al 632 (anno della morte del profeta), il Corano fu rivelato a Muhammad, dapprima per sure intere e brevi e quindi per brani, in considerazione della lunghezza talvolta notevole delle sure.
Il profeta stesso provvedeva a indicare dove un certo brano dovesse essere disposto, con ciò costringendo involontariamente i suoi sempre più numerosi fedeli che intendevano imparare a memoria la Parola di Dio, a un notevole sforzo mnemonico.
Numerosi sono gli episodi riguardanti la prima provvisoria sistemazione del materiale rivelato, con richieste frequenti d'interpretazioni di passaggi ritenuti oscuri dai fedeli e anche con qualche episodio che generò turbamento in alcuni musulmani. Ci riferiamo in particolare a un segretario - nel senso di "scrivano" (kātib) - che artatamente trascrisse male una rivelazione, accorgendosi poi che il profeta non s'era accorto dell'accaduto. Il sospetto che Muhammad fosse un impostore si affacciò evidentemente con forza alla mente dello scriba che, abiurando, fuggì alla volta della Siria, onde evitare la punizione capitale prevista per il grave peccato di apostasia ( ridda ).
La precarietà da un lato del ductus consonantico della lingua araba scritta e dall'altro del materiale stesso fino ad allora usato per vergare in modo approssimativo i brani della rivelazione coranica, nonché la morte (12 maggio 633/rabī I 12), nella Aqrabā in Yamama, nel quadro della guerra della cosiddetta "Ridda", di un numero particolarmente elevato di fedeli musulmani ( qurrā ) che avevano memorizzato per intero il Testo Sacro, indusse già il primo califfo Abū Bakr a incaricare un gruppo di persone (coordinato dal principale scrivano del profeta, Zayd ibn Thābit) della trasposizione per iscritto del Corano.
Il lavoro di raccolta e collazione del materiale coranico conobbe evidentemente un rallentamento a causa della morte nel 634 di Abū Bakr e dell'avvio sotto il secondo califfo Umar della convulsa fase delle conquiste arabo-islamiche in Siria-Palestina, Egitto, Mesopotamia e Iran occidentale.
Fu così il terzo califfo Uthmān ad avere merito della sistematizzazione definitiva della redazione scritta dell'intero testo coranico ( muṣḥaf ).
Ancora una volta a coordinare lo sforzo fu Zayd ibn Thābit e il principio fu quello di accettare solo quelle tradizioni che, separatamente testimoniate da due musulmani che l'avessero raccolte di persona, fossero in tutto e per tutto combacianti alla lettera. Una sola eccezione fu fatta per Khuzayma ibn Thābit (m. 657), la cui eccezionale memoria e affidabilità gli aveva procurato da parte di Muḥammad il soprannome onorifico di Dhū l-shahādatayn (Quello delle due testimonianze), per il quale fu accettato il principio della validità della sua unica certificazione.
A redazione ultimata il califfo dette disposizione affinché le copie divergenti da quella per suo incarico raccolta fossero distrutte. È noto che uno dei primi musulmani, Ibn Masūd, proprietario d'una copia da lui stesso vergata e che era difforme alquanto da quella di Uthmān, si rifiutò d'ubbidire e venne per questo malmenato dalle guardie del califfo che, però, pare agissero più di loro iniziativa che per specifica autorizzazione del califfo. La cosa, comunque, scandalizzò parecchi vecchi musulmani e concorsero a rovinare in parte la reputazione e la popolarità di Uthmān.
Evoluzione del testo coranico
A lato di tale presupposto teologico di assoluta fissità del testo, alcuni studiosi orientalisti hanno fatto però notare che il Corano, come qualunque testo di qualsivoglia cultura umana, potrebbe essere stato oggetto di una certa evoluzione.
Nel 1972, durante i lavori di restauro della Grande Moschea di Ṣanā, capitale dello Yemen, alcuni operai scoprirono per caso un’intercapedine tra il soffitto interno e quello esterno dell’edificio. Si trattava di una “tomba delle carte”, cioè una “sepoltura” di vecchi testi religiosi ormai in disuso e che per il loro carattere sacro non è permesso distruggere: una pratica in uso anche nel mondo ebraico, come dimostrato dai documenti della "Gheniza dei Palestinesi" del Cairo studiati da Shelomo Dov Goitein. A Ṣanā ci si imbatté in una quantità considerevole di antiche pergamene e documenti più o meno rovinati dal tempo, umidità, topi e insetti.
Nel 1979, su richiesta di Qāḍī Ismāīl al-Akwā, allora Presidente dell’Autorità per le Antichità Yemenite, uno studioso tedesco, Gerd-Rüdiger Puin, della Universität des Saarlandes, cominciò a lavorare sul materiale ritrovato. Scoprì che alcune pergamene, risalenti al 680 circa, risultavano essere frammenti del più antico Corano esistente. Da analisi più approfondite cominciarono a emergere alcuni elementi interessanti: oltre che scarti dalla versione standard del Corano ("In ogni pagina le differenze con la vulgata coranica sono una decina", sostiene Puin) e una ordinazione dei versetti non convenzionale, si può notare con chiarezza la presenza di nuove versioni riscritte sopra quelle precedenti.
Il Corano con cui Puin ha a che fare appare insomma sempre più un testo in evoluzione. Il lavoro di restauro sui manoscritti ha portato alla sistemazione di oltre 15.000 fogli presso la Casa dei Manoscritti dello Yemen: lo studioso, coadiuvato dal suo collega H.C. Graf von Bothmer, si limitò però a catalogare e classificare i frammenti, pubblicando solo qualche breve osservazione critico-contenutistica sul valore della scoperta, per timore che le autorità yemenite vietassero ogni ulteriore accesso. Ad altri studiosi, in effetti, non sono stati rilasciati i permessi necessari per visionare i manoscritti.
Tale scoperta, se da un lato invalida il concetto di immutabilità del Corano, postulato dai musulmani dopo i contributi di Aḥmad b. Ḥanbal nel IX secolo e imposto come dogma solo dopo l'avvio del califfato di al-Mutawakkil (847-861), dall'altro lato ha contribuito però a mettere alquanto in crisi anche l'ipotesi avanzata a fine anni '70 del XX secolo dallo studioso britannico John E. Wansbrough. Questi fu il capofila di una serie di studiosi per i quali il testo coranico e, di fatto, gli assetti giuridico-religiosi dell'Islam in genere, sarebbero stati concepiti e portati a realizzazione in una fase assai più avanzata rispetto al VII secolo d.C. e, più esattamente, non prima del II secolo del calendario islamico, equivalente all'VIII/IX secolo della nostra era.
L'ipotesi si basava sull'oggettiva tarda comparsa della produzione scritta, attestata solo a partire dal II secolo islamico, al quale risale il primo manoscritto, pervenutoci in uno standard compiuto della lingua araba, fino a quel momento rimasta a uno stadio di rudimentalità, pur in presenza di una estrema raffinatezza della lingua parlata, specialmente poetica. Ciò era stato causato dal protratto permanere di irrisolte storture morfologiche della scrittura che, tra l'altro, non era stata a lungo in grado di distinguere fra loro interi gruppi di grafemi, fin quando infine si poté ovviare (probabilmente grazie al contributo di convertiti provenienti dalla cultura siriaca, ebraica e persiana mazdea), col ricorso a una distinta puntuazione delle consonanti, tale da consentire infine un percorso intellettivo senza incertezze da parte del lettore.
Traduzioni del Corano
Malgrado i musulmani considerino che qualsiasi traduzione dal testo arabo del Corano non possa evitare d'introdurre - in quanto traduzione - elementi di ambiguità se non di vero e proprio travisamento semantico, e siano pertanto tendenzialmente sfavorevoli a qualsiasi versione del loro testo sacro in idioma diverso da quello originale, l'estrema esiguità dei musulmani arabofoni (all'incirca il 10% dell'intera popolazione islamica mondiale) ha condotto ad approntare traduzioni nelle più diverse lingue del mondo anche islamico: dal persiano al turco, dall'urdu all'indonesiano, dall'hindi al berbero.
Per quanto riguarda l'Italia non si potrà trascurare il fatto che, fra tutti gli idiomi neo-latini, fu proprio in volgare toscano che fu per la prima volta tradotto il Corano, dopo le varie traduzioni in lingua latina, di cui la più famosa rimane quella commissionata da Pietro il Venerabile, abate di Cluny, a Roberto di Ketton (o Robertus Ratenensis) nel 1143 e quella curata agli inizi del Cinquecento da Paganino da Brescia (ritirata però e fatta bruciare per disposizione papalina per l'eccessiva sua messe di errori).
I brani in volgare italiano, sono da riferire a tal Marco, canonico della Cattedrale di Toledo, che li curò tra il 1210 e il 1213, sono stati recentemente scoperti, studiati ed editi da Luciano Formisano, dell'Università di Bologna, che l'ha rinvenuti all'interno del fiorentino codice Riccardiano 1910: autografo di Piero di Giovanni Vaglienti (Firenze, 1438- post 15-7-1514). Essi sono quindi parecchio precedenti alla versione del 1547 di Andrea Arrivabene, a lungo considerata la più antica, e a quella ormai classica di Ludovico Marracci, stampata però a Padova solo nel 1698.
Al XX secolo vanno invece riferite le versioni di docenti universitari quali Luigi Bonelli, Alessandro Bausani e Martino Mario Moreno. Se ne contano numerose altre, di diverso livello scientifico, spesso tradotte da musulmani che sono stati mossi all'impresa dalla loro convinzione che le traduzioni scientifiche anzidette siano comunque tendenzialmente fuorvianti, proprio perché curate da orientalisti non musulmani, senza peraltro poter sfuggire anch'essi alle critiche di fondo di chi sostiene in modo convinto l'adagio "traduttore traditore".
Versetti riferiti a Cristianesimo e Giudaismo
Nel versetto 7 della prima sura, (al-Fātiḥa, "l'Aprente"), "la via di coloro che hai colmato di grazia, non di coloro che [sono incorsi] nella [Tua] ira, né degli sviati", gli "sviati" sono gli ebrei e i cristiani che Allāh rimprovera per non avere seguito il suo messaggio. Quindi gli ebrei non avrebbero riconosciuto come profeta Īsā (Gesù) tacciandolo di falsità e mostrandogli ostilità; i cristiani invece trasgredirebbero al Primo Pilastro dell'Islam (vedi: Cinque pilastri dell'Islam), quello dell'unicità di Allāh, poiché adorano la trinità, anche se secondo il Corano essa sarebbe composta da Dio, Gesù e Maria.
Secondo il Corano ebrei e cristiani hanno dunque corrotto (cioè modificato volontariamente) le Sacre Scritture. Il Corano contiene diversi riferimenti ai personaggi della Bibbia e a tradizioni ebraiche e cristiane. Sulla figura di Gesù in particolare il Corano ricorda dottrine gnostiche e docetiste, sostenendo che sulla croce sarebbe stato sostituito con un sosia.

SEI LIBRI
I Sei libri (o, in lingua araba, al-Kutub al-sitta, ﺍﻟﻜﺘﺐ ﺍﻟﺴﺜﻪ) sono le sei principali opere di tradizioni storico-giuridiche ( ḥadīth ) registrate da musulmani e che costituiscono per i sunniti - subito dopo il Corano - la seconda fonte del diritto islamico e, con il Testo Sacro dell'Islam, la sharīa.
Gli autori delle opere sono: Bukhārī, Muslim ibn al-Hajjāj, Ibn Mājah, al-Nasā'ī, al-Tirmidhī e Abū Dāwūd al-Sījistānī. Più importanti sono considerati le opere dei primi due, entrambe chiamate al-Jāmi al-ṣaḥīḥ ("La sana raccolta", "La corretta raccolta"), tanto da essere ricordate col duale arabo Ṣaḥīḥānī (I due Ṣaḥīḥ), così come i loro autori sono ricordati come al-Shaykhānī (I due shaykh).
Gli sciiti preferiscono invece altre opere di hadīth, fra cui quelle di Abū Jafar Muḥammad b. Yaqūb al-Kulaynī, di al-Bābūya al-Qummī o di Abū Jafar Muḥammad b. al-Ḥasan al-Ṭūsī.

SUNNA
Sunna (in lingua araba سنة‎) è un termine che significa "costume" o "codice di comportamento".
Le sunna sono gli atti e detti del Profeta, che sono stati trasmessi negli hadith.
Dopo il Corano, la sunna costituisce la seconda fonte della legge islamica. Sunnita, cioè "seguace della tradizione del Profeta e della comunità" (ahl al-sunna wa l-jamāa), si definisce la maggioranza dei musulmani che all'incirca nell'800 d.C. diede vita alla corrente principale dell'Islam in opposizione ai kharigiti e agli sciiti (shīa ).


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