Questo BLOG è il risultato di una vasta ricerca sulle maggiori religioni diffuse nel mondo. Qui potrete trovare una spiegazione obbiettiva delle credenze, delle divinità e del pensiero dei vari culti.

lunedì 4 maggio 2009

INDUISMO

L'Induismo è la più antica delle principali religioni del mondo e, con più di 900 milioni di fedeli, è attualmente la terza più diffusa, dopo il Cristianesimo e l'Islam. Dare una definizione unitaria dell'Induismo è difficile, poiché esso – più che una religione in senso stretto – si può considerare una serie di correnti devozionali e/o metafisiche e/o filosofico-speculative eterogenee, aventi sì un comune un nucleo di valori e credenze, ma differenti tra loro a seconda del modo in cui interpretano la tradizione, e a seconda di quale aspetto diviene oggetto di focalizzazione per le singole correnti.
Tentativo di definizione
L'induismo o più correttamente Sanātana Dharma (all'incirca "Eterna legge morale") è più un modo di vivere e di pensare che una religione organizzata. Storicamente, la parola hindu (da cui "indù") non faceva riferimento a un sistema di credenze religiose: il termine, di origine persiana, indicava semplicemente coloro che, dal punto di vista dei persiani abitavano dall'altra parte dell'Indo. Dopo la colonizzazione britannica, il termine fu impiegato per indicare un insieme variabile di fatti religiosi.
Nel 1966 la Corte suprema dell'India ha definito il quadro della "fede indù" sui seguenti principi:
l'accettazione rispettosa dei Veda (sinistra) come la più alta autorità riguardo agli argomenti religiosi e filosofici, e l'accettazione rispettosa dei Veda da parte dei pensatori e filosofi indù come base unica della filosofia indù;
lo spirito di tolleranza e di buona volontà per comprendere e apprezzare il punto di vista dell'avversario, basato sulla rivelazione che la verità possiede molteplici apparenze;
l'accettazione, da parte di ciascuno dei sei sistemi di filosofia indù, di un ritmo dell'esistenza cosmica che conosce periodi di creazione, di conservazione e di distruzione, periodi, o Yuga che si succedono senza fine;
l'accettazione da parte di tutti i sistemi filosofici indù della fede nella rinascita e preesistenza degli esseri.
il riconoscimento del fatto che i mezzi o i modi di raggiungere la salvezza sono molteplici;
la comprensione della verità che, per quanto grande possa essere il numero delle divinità da adorare, si può essere indù e non credere che sia necessario adorare le murti (rappresentazioni) delle divinità;
a differenza di altre religioni o fedi, la religione indù non è legata a un insieme definito di concetti filosofici.
Secondo un altro punto di vista, un "indù" è colui che crede alla filosofia esposta nei Veda (lett. "sapere", "conoscere"). I Veda sono forse le scritture religiose più antiche del mondo e il loro insegnamento di base è che la vera natura dell'uomo è divina. Dio, o il Brahman (come è di solito chiamata la matrice metafisica di tutto ciò che esiste) è presente in ogni essere vivente. La religione è dunque una ricerca e una conoscenza di sé, una ricerca del divino presente in ogni individuo. I Veda dichiarano che nessuno ha bisogno "di essere salvato", perché nessuno è mai condannato; nel peggiore dei casi, si vive nell'ignoranza della propria vera natura divina.
Il Vedānta riconosce che ci sono molti approcci diversi a Dio, e tutti sono validi. Non importa quale genere di pratica spirituale si conduca, poiché ognuna conduce al medesimo stato di realizzazione del Sé. Così i Vedānta insegnano il rispetto di tutte le credenze e si distinguono dalla maggior parte delle altre fedi maggiori per il loro forte incoraggiamento alla tolleranza verso questi diversi sistemi di fede.
In sanscrito, il termine Sindhu indica in senso generale una distesa d'acqua (un mare, o un lago), ed in particolare il fiume Indo. Gli Arya chiamavano il proprio territorio Sapta Sindhu, la terra dei sette fiumi (tra i quali appunto l'Indo), con un'espressione attestata numerose volte nel Rig-veda. Il suono /s/ (iniziale e intervocalico) in persiano antico diventa /h/, e così nell'Avesta Sapta Sindhu diventa Hapta Hindhu. La regione a est del fiume Indo diventa così l'Hindustan, e i suoi abitanti sono chiamati "hindu" (indù) da Arabi e Persiani e, più tardi, da Greci e Romani. L'utilizzo del termine hindu nell'accezione di "abitanti dell'India", probabilmente per influenza iranica, è attestato in alcuni testi medioevali in sanscrito, quali Bhavishya Purâna, Kâlikâ Purâna, Merutantra, Râmakosha, Hemantakavikosha ed Adbhutarûpakosha.
L'induismo è definito anche "arya dharma", la religione degli Arya (e quindi nobile) e "Vaidika Dharma", la religione dei Veda.
La tradizione induista
Dare una definizione veritiera di induismo sembra un'impresa azzardata, tanto il concetto è complesso e multiforme. È dunque preferibile passare in rassegna l'induismo attraverso le sue idee e le sue pratiche. L'induismo esiste attualmente su due piani differenti, il primo basato puramente sulla fede e il secondo basato sulla filosofia, anche se spesso i due piani si incrociano.
Si può tracciare un parallelo interessante tra la trinità cristiana e le tre divinità principali del Pantheon induista, che prendono il nome di Trimurti: Brahma, Viṣṇu e Śiva (sinistra). Sono i tre aspetti fondamentali del Divino, così come l'onda e il fotone sono due aspetti della luce. Brahma rappresenta il creatore, Viṣṇu il conservatore e Śiva il distruttore all'interno del ciclo dell'esistenza. Spesso la Trimurti è venerata come un'unica deità, così come nella tradizione giudeo-cristiana di parla di Dio "Uno e Trino" al tempo stesso.

Il piano filosofico:
Si contano tradizionalmente sei antiche astika o scuole di filosofia ortodosse (ortodosse perché accettano l'autorità dei Veda), dette Darshana o Shad Dharshana (le Sei Darshana): Nyaya, Vaisheshika, Samkhya, Yoga, Purva Mimamsa (o semplicemente Mimamsa) e Uttara Mimamsa (o Vedānta). Le nastika, o scuole non ortodosse, che non sono qui trattate, sono il giainismo, il buddismo, il chârvâka, e l'ateismo antico classico dell'India che confuta l'esistenza dell'anima o Ātman.
Il piano della fede:
Contrariamente all'opinione popolare, il vero induismo non è né politeista né monoteista, ma è propriamente una religione enoteista. Le diverse divinità e Avatar adorati dagli indù sono considerati come diverse forme dell'Uno, il Dio Supremo, o Brahman, che adotta per rendersi accessibile all'uomo (si presti attenzione a non confondere Brahman, l'Essere Supremo e fonte ultima di ogni energia divina, con Brahma (sinistra), il creatore del nostro universo particolare).
Il Brahmanesimo, che è la forma moderna della religione vedica si divide in rami, essi stessi divisi in varie correnti:
il Viṣṇuismo, o vaishnavismo, che si rapporta all'Uno in quanto Viṣṇu (destra), o tramite uno dei suoi Avatar. I libri sacri sono il Bhāgavata-Purāna spesso chiamato Shrīmad-bhāghavatam, e la Bhagavad-Gītā.
lo Śivaismo, o shaivismo, che si rifà principalmente al culto di Śiva (sinistra), divinità pre-vedica adorata inizialmente con il nome di Rudra, a cui è dedicato lo Śiva Purāna.
il Tantrismo che si suddivide in due o tre filoni secondo le classificazioni e il cui scopo è la realizzazione della shakti, l'energia vitale spesso associata a una forma di Devī, la Dea madre dai molti nomi (Kali, Durga, ecc.)
Ciascuno di questi culti si pratica con i medesimi mezzi filosofici o di yoga, sono solo i loro metodi che differiscono.

Questi culti non devono essere considerati come delle "chiese", perché non esiste alcun dogma, e perché le credenze individuali sono sempre rispettate. La maggior parte degli indù si considera non appartenente a nessuna "setta" in particolare. Ci sono altresì numerose organizzazioni riformatrici, come l'Arya Samaj ("Società degli Arya") che adottano il monoteismo e la fede nei Veda, ma respingono l'idolatria.
I Vaishnava, che costituiscono approssimativamente l'80% degli indù di oggi, adorano uno dei tre più recenti avatar - o incarnazioni terrestri - di Viṣṇu come divinità principale. Il settimo avatar di Viṣṇu è Rama, l'ottavo è Kṛṣṇa, e il nono cambia secondo le fonti: è identificato con Buddha nella grande maggioranza delle scuole, ma anche, più raramente e meno seriamente, con Gesù Cristo. L'integrazione di Buddha nel pantheon indù è comparsa tardi, probabilmente nell'VIII secolo; questo procedimento - in fin dei conti abbastanza ardito - è l'espressione della controriforma brahmanica al Buddhismo, iniziata nel II secolo AC. Alcuni riconoscono tutti i personaggi menzionati come veri avatar, aumentando così il numero tradizionale di dieci avatar (incluso Kalki, che apparirà alla fine dell'era presente, il Kali Yuga) fino a 27.
La maggior parte degli indù restanti (il 20% del totale) sono Śivaiti; il resto si consacra a Shakti, o Ishvari, una delle cui forme è la dea Kali, una divinità benefica e terrifica al tempo stesso. Tuttavia, solitamente, il credente induista possiede nella propria dimora le rappresentazioni (murti) di molte di queste (ed altre) forme di Dio (Ishvara).
Credenze e pratiche comuni all'induismo
Benché l'induismo sia il nome comune di un insieme di culti diversi, ogni indù condivide un nucleo di valori comuni. La somma di questi valori identifica il credente indù.
Credenze di base
Nella estrema varietà dell'induismo si trovano dei valori comuni a tutti i credenti, ovvero:
la fede nel Dharma (Legge Cosmica, il modo in cui tutte le cose sono)
Saṃsāra (Reincarnazione, rinascita)
Karma (azione, il ciclo di causa-effetto)
la Moksha (liberazione, trascendenza) di ogni anima attraverso dei percorsi spirituali quali:
Bhakti (devozione)
Karma (inteso come azione personale)
Jñāna (Illuminazione, Conoscenza)
e naturalmente con la fede in Dio (Ishvara).
La trasmigrazione dell'anima è regolata dal Karma: la filosofia del Karma è basata sulle azioni compiute dal soggetto, che resteranno impresse sulla sua anima (Ātman) dell'essere individuale (jiva), attraverso un ciclo di nascita e morte fino alla liberazione definitiva (moksha)
La teoria secondo la quale ci si possa convertire all'Induismo è contestabile. Infatti l'Induismo non è una fede evangelica come il Cristianesimo o l'Islam essendo totalmente assente dagli scritti induisti il momento della conversione religiosa, per uno straniero l'essere o meno indù dipende dalla sua accettazione come parte della comunità induista. L'Induismo, infatti, riconosce come egualmente validi numerosi cammini spirituali.
Peculiare è anche il fatto che, benché la mitologia indiana riconosca l'esistenza di esseri demoniaci (asura o rakshasa), opposti ai deva, la filosofia indiana non crede all'esistenza di un Diavolo, causa di tutto il male. Tale credenza diffama e sminuisce la perfezione e l'onnipotenza di Dio. Il male nel mondo è causato dall'ignoranza e dal libero arbitrio.
AUM, il suono primordiale
Aum, solitamente translitterato in Om, è il simbolo più sacro dell'Induismo, il suono primordiale, sintesi di ogni preghiera, rituale o formula sacra. Ė un segno carico di un messaggio simbolico profondo: è considerato come la vibrazione divina primitiva (Pranava) da cui ha avuto origine l'universo manifesto; rappresenta quindi la base metafisica di tutte le esistenze, l'abbraccio e fusione di tutta la natura nella Verità Ultima.
Viene utilizzato come prefisso (e talvolta come suffisso) nei mantra, e in quasi tutte le preghiere della tradizione induista.
Il Dio multi-forme ed il Dio "Senza forma"
Secondo alcuni non è corretto parlare di "Dio" in un contesto induista. Questo può essere vero solo in seguito ad un'analisi superficiale, poiché tale termine, nella cultura indù, può riferirsi tanto alla totalità del Divino quanto ai Suoi singoli aspetti: ad esempio, l'aspetto personale o quello impersonale, l'aspetto creativo o quello distruttivo, l'aspetto femminile o quello maschile, l'aspetto dolce o quello austero, l'aspetto trascendente o quello immanente, e così via.
Questa tendenza a racchiudere in simbologie aspetti tra loro opposti e complementari spiega l'apparente contraddizione tra le varie forme di Dio venerati nell'Induismo. Ciò si riflette nel sistema delle murti (raffigurazioni di Dio o dei Suoi aspetti): per fare alcuni esempi, Devi (ossia l'aspetto materno/femminile di Dio), a seconda dell'aspetto che si vuole considerare, viene chiamata Kali (aspetto terrifico della Madre Divina che, per amore del devoto, distrugge i demoni - sinistra) oppure Bhavani (aspetto creativo della Madre Divina, lett. "Colei che dà la vita"); e, allo stesso modo, Śiva (l'aspetto paterno/maschile di Dio) viene chiamato a seconda dei casi Hara (lett. Distruttore) o Shankara (lett. Benefico).
I Veda descrivono il Brahman (/brəh mən/) come la Realtà Ultima, l'Anima Assoluta ed Universale. Il Brahman, un panteistico Spirito Cosmico, è indescrivibile, incorporeo, originale, infinito, assoluto, trascendente ed immanente, eterno. È il principio ultimo che non ha avuto inizio, non ha una fine, è nascosto in tutte le cose ed è la causa, la fonte, la materia e l'effetto di tutta la creazione conosciuta e sconosciuta. Esso è l'origine di tutti i Deva (esseri celesti), e rappresenta la base del manifesto e dell'immanifesto, uno stato indifferenziato di puro essere, eternità e beatitudine, situato al di là di qualsiasi speculazione filosofica o moto devozionale.
Solitamente, con "Dio" in un contesto induista ci si riferisce al Dio-persona (generalmente chiamato Ishvara, che significa "il Signore Supremo"), o il Dio con una Sua individualità, con degli attributi, con Nomi e Forme (in sanscrito, nama-rupa), il Dio dotato di tutti i poteri, al tempo stesso immanente e trascendente, il Dio che per amore dell'uomo si incarna ed impartisce gli insegnamenti necessari per ottenere la realizzazione spirituale. Ishvara (nelle sue innumerevoli forme e nomi) costituisce l'aspetto supremo di Dio presso i principali culti devozionali (Bhakti o Bhakti Yoga) monoteisti, ovvero Śivaismo (monoteismo di Śiva), Vaishnavismo (monoteismo di Viṣṇu / Kṛṣṇa) e Shaktismo (monoteismo di Devi, la Madre Divina, chiamata anche Shakti - sinistra). È importante sottolineare, tuttavia, che nessuno di questi culti nega l'esistenza o la validità delle altre forme/nomi divini; ciò che varia in ognuno di essi è soltanto l'aspetto peculiare (di Dio) su cui ci si vuole focalizzare, per farne oggetto di devozione.
Secondo la scuola di pensiero del Vedānta, in particolare secondo la filosofia Advaita (filosofia della non dualità), esiste un substrato metafisico di tutto ciò che esiste - su tutti i piani, grossolano, sottile e causale - un vero e proprio supporto situato al di là di ogni individualità, sia che essa riguardi l'anima individuale (detta Jiva) o quella universale (Ishvara, o Dio-persona). Questo substrato si trova oltre il mondo dei nomi e delle forme, ed è appunto il Brahman.
Il ciclo della vita
Come ogni religione, l'induismo ha fondato la sua fede su un rituale funebre particolare e su una originale concezione della morte. L'induista crede nella reincarnazione e nella vita dopo la morte, dal momento che il corpo è considerato un mero involucro materiale temporaneo. Quando giunge il momento di lasciare la vita, l'anima o Ātman abbandona il corpo. Se ha accumulato karma attraverso troppe azioni negative, l'anima si incarna in un nuovo corpo su un pianeta come la terra o inferiore, come l'inferno (Naraka), per subire il peso delle sue malvagie azioni. Se il suo karma è positivo, vivrà come un essere divino, o deva, su uno dei mondi celesti (superiori alla terra, come il paradiso o Svarga) nei quali sperimenterà grandi piaceri spirituali, fino al momento in cui il suo karma positivo non sarà esaurito; allora l'anima ritornerà in un altro corpo sulla terra, facendo parte di una casta (o classe sociale) spiritualmente elevata. Questo ciclo è chiamato Saṃsāra. Quando il karma viene completamente assolto, l'anima abbandona definitivamente il mondo fisico (fatto di sofferenza, poiché soggetto a malattia, vecchiaia e morte) e può infine raggiungere la liberazione, Moksha, ovvero l'unione con Dio. Ma per realizzare questo obiettivo e spezzare il ciclo perpetuo di morte e rinascita, l'indù deve vivere in maniera che il suo karma non sia né negativo né positivo, ovvero agendo solo per dovere (Dharma), senza scopi egoistici, ed offrendo a Dio il frutto delle proprie azioni, così come prescrive la Bhagavad Gita; quest'ultima insegna vari metodi, detti Yoga, tramite cui giungere a questo risultato, lasciando all'individuo la scelta del metodo che gli si addice di più, secondo le diverse scuole di filosofia indiana. Oggi, il credente indù, dal momento che vive in un'epoca estremamente materialista, chiamata Kali Yuga (lett. era delle tenebre, l'era attuale, caratterizzata da una diffusa ignoranza spirituale), preferisce scegliere sentieri spirituali semplici ed efficaci, come ad esempio quello del Bhakti Yoga (la via della devozione) o del Karma Yoga.
I quattro stadi della vita
Secondo la tradizione vedica, l'indù deve attraversare quattro stadi della vita o ashram (l'altro significato di questa parola designa un eremo di sannyasi). Questi quattro periodi della vita sono:
Il brâhmâcârya: il giovane indù, sotto la guida del suo maestro o guru, osserva un periodo di castità e di formazione, tanto profana quanto spirituale, durante la quale svilupperà il suo sapere e la sua virtù.
Il garhasthya: l'indù entra nella vita mondana, si sposa e fonda una famiglia, che è anche un dovere religioso. Durante questo periodo, ha il diritto di godere della vita, contemporaneamente imparando ad avere dominio di sé.
Il vânaprasthya: dopo aver compiuto il suo dovere sociale, l'indù lascia la sua famiglia, a cui ha lasciato mezzi di sussistenza, e va a vivere un periodo di studio delle scritture sacre nel "soggiorno nella foresta", praticandovi la meditazione e il digiuno.
Il samnyâsa: l'indù raggiunge lo stato di rinuncia, disinteressandosi dal mondo, e diviene un samnyasi. Distaccato dal mondo, può ritornare tra i suoi poiché non teme più le tentazioni materiali e potrà far partecipi coloro che lo circondano della sua esperienza e del suo sapere.
Oggi le due ultime tappe non sono più praticate che da un piccolo numero di persone, avendo gli indù trovato nel Bhakti Yoga un mezzo più semplice e più sicuro di liberarsi del mondo, dedicandosi all'amore verso Dio.
I quattro scopi della vita
In parallelo ai quattro periodi della vita indù, l'induismo ritiene che esistano quattro scopi all'esistenza o purushārtha. Poiché i desideri umani sono naturali, ciascuno di questi scopi serve a perfezionare la conoscenza dell'uomo dal momento che, tramite il risveglio dei sensi e la sua partecipazione al mondo, ne scopre i princìpi. Ciò nonostante, l'indù deve guardarsi dall'essere affascinato da questi scopi, sotto la pena di errare senza fine nel ciclo del Saṃsāra. Gli scopi sono:
Artha o la ricchezza: l'uomo deve partecipare alla società creandosi un patrimonio e delle relazioni che saranno il frutto del suo lavoro. Deve fare attenzione però a non farsi ingannare dal fascino di una vita agiata, la quale deve venire usata per trarne un insegnamento. Il periodo del Grihastha è propizio al perseguimento di questo fine.
Kâma o il piacere: contrariamente alla tradizione cristiana, il piacere non è percepito come un male: è un dono della divinità. Nella mitologia induista, il dio Amore, Kāma, è la sorgente della creazione. Il Kama Sutra espone i mezzi per esaltare i sensi e far fiorire la vita di coppia. Grazie ai piaceri, il campo della conoscenza si allarga e l'atto amoroso ne è il culmine, in cui l'uomo e la donna non si distinguono più, ma formano un tutt'uno che ricrea l'unità divina. Il piacere deve essere diretto allo scopo di conoscere e non deve diventare uno stile di vita che condurrebbe a commettere degli atti immorali o contro il dharma.
Dharma o il dovere: il dharma deve dirigere tutti i quattro periodi della vita. Il dovere permette all'uomo di proseguire la propria vita sul retto cammino, conformandosi al diritto e alla morale che sono trascritti nel Dharma Sūtra o nel Manu-Samhitā detto anche Legge di Manu.
Moksha o la liberazione: durante i due ultimi periodi della vita dell'indù, questo ricerca Moksha. Si tratta in realtà dello scopo ultimo della vita, che può essere raggiunto attraverso mezzi differenti, come ad esempio il Bhakti Yoga.
La svastikā, più conosciuta con il nome di croce uncinata, è il simbolo stesso dei quattro periodi e scopi della vita. Questo segno, di origine molto antica, si ritrova in molte civiltà e simboleggia la rivoluzione del sole e le forze cosmiche. I quattro bracci simboleggiano gli oggetti e le stagioni della vita che convergono verso il medesimo centro, chiamato bindu. Questo punto centrale, che rappresenta l'etere, il quinto elemento, si irradia sugli altri quattro, così come sui punti cardinali, sugli scopi e sulle stagioni della vita umana. Comprendere questo simbolo e meditarvi permette di realizzare l'unità dell'universo e di Dio.

La vita sociale-Le quattro classi della società
La società indù è tradizionalmente divisa in quattro grandi classi o caste, basati sulle professioni e sul guna da cui sono influenzati:
Brahmana, sacerdoti ed insegnati (Sattva guna)
Kshatrya, re, guerrieri ed amministratori (Rajas)
Vaishya, agricoltori, mercanti, uomini d'affari (Rajas e Tamas)
Shudra, servitori ed operai (Tamas)
Queste classi sono chiamate varna, ed il sistema sociale è il Varna Vyavastha
In India si ritiene che la società è organizzata secondo l'equilibrio del dharma. Questa organizzazione permette l'armonizzazione dei rapporti tra gli uomini e di definire i doveri che spettano loro. Questa preoccupazione per l'equilibrio ha un'origine dottrinale, perché essa corrisponde, di fatto, al simbolismo dei Guna, o qualità/sapori. Ai tre Guna corrispondono i tre colori che sono ciascuno associato ad una casta.
All'origine, l'indù non nasce in una casta: acquisterà la sua casta in funzione del ruolo e delle responsabilità che sarà condotto a ricoprire. Molti testi mitologici denunciano l'usurpazione del titolo di brahmino da parte di certi personaggi che, sotto la copertura della nascita, approfittano di uno status importante senza compiere i propri doveri.
Non è chiaro se il sistema delle caste sia o meno parte integrante dell'induismo: i testi Shruti ne fanno raramente menzione, il sistema è invece regolato dai testi Smriti. In precedenza, il sistema era basato esclusivamente sulla professione, e vi sono decine di esempi di matrimoni tra differenti varna e di cambi di professione. Più tardi (sembra intorno 900 a.C., ma gli storici avanzano differenti ipotesi), invece, il sistema diventò rigido e basato sullo status acquisito per nascita. Successivamente, con lo sviluppo di numerose sotto-caste e di una casta di intoccabili (Dalit) al di fuori del Varna Vyavastha, è nato il sistema delle caste così come lo conosciamo oggi. In seguito alle invasioni e alla colonizzazione britannica, la regola si è fatta ancora più stretta a vantaggio delle caste superiori, relegando i shudra alla posizione di dominati. Dopo l'indipendenza del 1947, anche grazie all'opera di Gandhi, vengono emanate molte leggi per sradicare il sistema delle caste, ma ancora oggi esistono diversi pregiudizi, soprattutto nei confronti degli "intoccabili".
Questo sistema, che sembra arcaico, è tuttavia pur sempre simile a quello in vigore nelle società occidentali: in genere, sono pochi gli uomini di umile estrazione che riescono ad arrivare ai piani alti della società. In Occidente, tuttavia, l'organizzazione sociale non è dogmatica, ma pratica, e il suo sentimento di incomprensione si spiega per la sua assimilazione all'antico sistema feudale europeo. Si ignora spesso che questo sistema, che si ritrova anche nel regno animale, come nelle formiche, e nell'organizzazione della famiglia, è evolutivo e che si adatta di fatto all'evoluzione sociale: che il sistema sia aristocratico, teocratico, proletario o borghese si ritrova una gerarchia simile che le crisi e le fratture sociali illustrano.
I Templi
I templi induisti (i Mandir) hanno ereditato dei riti e delle tradizioni antiche e molto elaborate, ed occupano uno spazio speciale all'interno della società indiana. Normalmente sono dedicati ad una divinità principale e a delle alle divinità subalterne, associate alla divinità principale. Alcuni templi sono tuttavia dedicati a divinità multiple. Quasi tutti i templi maggiori sono costruiti in accordo con gli agama shastra, e sono meta di pellegrinaggio.
Per molti induisti, i quattro Shankaracharya (i responsabili dei monasteri di Badrinath, Puri, Sringeri et Dwarka - quattro tra i monasteri più sacri- e per alcuni anche un quinto, quello di Kanchi) sono considerati come i principali "patriarchi" dell'induismo.
Il tempio è un luogo per ricevere il darshan (la visione della divinità), per la puja, per la meditazione e per altre attività religiose. Il puja, o adorazione, è generalmente rivolta ad una murti (statua o icona nella quale si invoca la presenza divina), congiuntamente a canti e preghiere sotto forma di mantra. L'adorazione delle murti è fatta quotidianamente all'interno dei templi, e fa parte integrante della bhakti. La maggior parte delle case indù ha una stanza o uno spazio consacrato per l'adorazione quotidiana e la meditazione religiosa.
La non-violenza e la dieta vegetariana
Ahimsâ è un concetto che raccomanda la non-violenza e il rispetto per tutte le forme di vita. Il termine ahimsâ compare per la prima volta nelle Upaniṣad e nel Raja Yoga, è la prima delle cinque yama, o voti eterni, le restrizioni dello Yoga.
Molti induisti praticano il vegetarismo come una forma di rispetto per ogni forma di vita. Esso inoltre è raccomandato per le sue virtù purificatrici (sattva) come un modus vivendi sano e igienico. Al giorno d'oggi, secondo le stime, il 30% della popolazione indù adotta una dieta vegetariana, questa è molto praticata soprattutto dalle comunità ortodosse dell'India del Sud, in alcuni stati del Nord come Gujarat, e in molti eremi di brahmana. Questa dieta è basata principalmente su latte e vegetali, qualcuno evita anche l'aglio e la cipolla poiché si crede abbiano proprietà rajasiche, vale a dire passionali.
Gli induisti che mangiano la carne (pollo, montone, pesce e capra) per lo più si astengono dal consumo di carne di mucca, e qualcuno si astiene anche dall'utilizzo di prodotti come il cuoio. La maggior parte degli indù considera infatti la mucca come il miglior esempio della benevolenza degli animali e, poiché è l'animale più apprezzato per il latte, è riverita e rispettata come una madre. Di conseguenza non stupisce il fatto che nella maggior parte di città sante indù sia vietata la vendita di carne di mucca (spesso di qualsiasi tipo di carne) e che esistano dei divieti sull'abbattimento delle mucche in quasi tutti gli Stati dell'India. La pratica (piuttosto rara) di sacrificare delle capre o altri animali nei templi della Dea madre è scomparsa a causa delle critiche degli altri indù.
La religione vedica: le origini dell'Induismo
Restano pochissime informazioni sull'Induismo primitivo. I documenti più antichi conosciuti sono i Veda, che si ritiene siano stati codificati nella loro forma attuale secoli prima delle prime versioni scritte note e trasmessi con esattezza per tradizione orale. I testi più antichi sono scritti in una variante arcaica di sanscrito, e presentano delle somiglianze con i testi dello Zoroastrismo. Di fatto, il sanscrito e l'avestico, la lingua dello Zoroastrismo, sono lingue molto vicine. L'età dei Veda e l'origine dei loro autori sono dei soggetti controversi, sebbene appaia chiaro che la religione vedica avesse tratti molto arcaici, strettamente connessi con l'arcaica società indoeuropea.
Le scritture sacre
Le scritture sacre dell'India antica si classificano in tre categorie: i Veda, le scritture della religione vedica, da cui deriva l'induismo moderno, le scritture induiste post-vediche, e le scritture dei movimenti dissidenti come il jainismo ed il buddhismo. Questi ultimi testi costituiscono una reazione ai Veda, ma vi restano fortemente legati in termini di insegnamenti e di concezione generale della vita. Qui verranno esaminate solo le prime due categorie.
La Shruti: I Veda
I Veda sono considerati i testi religiosi più antichi del mondo, e vengono definiti in sascrito "Śruti" o "Shruti" (ciò che è stato ascoltato/rivelato). Si dice infatti che siano stati rivelati dallo Spirito Supremo (Brahman) o da Dio ai rishi, durante uno stato di meditazione profonda. I Veda sono stati tradizionalmente trasmessi oralmente da padre in figlio, da maestro (guru) a discepolo. Successivamente vennero trascritti da un saggio chiamato Vyāsa o Vyāsadeva, il compilatore. Sulla base di vari indizi e riferimenti interni ed esterni ai testi, i ricercatori hanno avanzato ipotesi molto diverse sulla datazione dei Veda, dal 5.000 al 1.500 a.C.
Secondo la visione induista tradizionale, i Veda sono senza inizio né fine, e le verità in essi contenute sono eterne, e non sono creazioni umane, a differenza degli insegnamenti di Buddismo e Giainismo.
La tradizione vuole che i Veda siano stati suddivisi in quattro parti dal grande rishi di nome Vyasa, ovvero Rig Veda, Yajur Veda, Sama Veda e Atharva Veda.
Il Rig-Veda contiene dei mantra per invocare i deva per il rito del sacrificio del fuoco (Yajña); il Sama-Veda contiene dei canti per lo stesso sacrificio; lo Yajur-Veda contiene delle istruzioni per la celebrazione di riti; l'Atharva-Veda comprende dei carmi filosofici e semi-magici (contro i nemici, le malattie, e gli errori commessi durante i riti).
Ciascuno è diviso in quattro sezioni:
Samhitâ: mantra e inni
Brâhmana: testi liturgici e rituali
Âranyaka: la sezione teologica
Upaniṣad: la sezione speculativa
I Veda sono testi pieni di misticismo e di allegorie. Molte scuole filosofiche come l'Advaitismo incoraggiano ad interpretarli filosoficamente e metaforicamente, ma a non prenderli troppo alla lettera. Il suono dei mantra è considerato purificante, e per tale motivo c'è un'attenzione rigorosa per l'erudizione e la pronuncia corretta.
La religione vedica, in particolare durante il suo periodo arcaico, era differente dall'induismo attuale per numerosi aspetti, tra i quali, ad esempio, il riferirsi alle donne come autorità religiose (con l'esistenza di donne rishi), l'apparente mancanza della credenza nella reincarnazione, ed un pantheon differente (con Indra a capo degli Dei).
La Smriti: Le scritture post-vediche
I testi sacri più recenti dell'induismo sono denominati "Smṛiti" o "Smriti" (ciò che è ricordato, memoria, tradizione).
Mentre la letteratura "Shruti" è scritta in sanscrito vedico, la Smriti è scritta in sanscrito classico (di difficile comprensione e soggetto quindi ad interpretazione), maggiormente semplice e comprensibile, o in prâkrit, la "lingua comune". Maggiormente accessibili a tutti, la letteratura Smriti ha conosciuto una grande popolarità in all'interno di tutta la società indiana sin dalle origini. Anche oggi la maggior parte del mondo induista ha maggiore familiarità con la Smriti, divulgata anche attraverso telefilm, film, rappresentazioni, balletti, dipinti, sculture, racconti, ed altre forme artistiche, a differenza di una Shruti divenuta di esclusiva pertinenza dei brahmana. La Smriti, con le sue storie di re, eroi e Dei, corrisponde dunque alla letteratura popolare, ed assolve ad una funzione didattica e divulgativa, malgrado, in caso di apparente contraddizione, la Shruti venga riconosciuta come prioritaria.
La letteratura Smriti comprende:
Le Itihasa: le epopee del Râmâyana e del Mahâbhârata, che racchiude al suo interno la famosa Bhagavad-Gita
I Purâna: diciotto maggiori (Maha Purana) e diciotto minori (Upa Purana)
Gli Âgama: 28 trattati teologici, completati dagli Upâgama (Âgama minori) e dai
Darshana, testi filosofici.
Anche i Dharmashâstra (Libri della legge) fanno parte della Smriti.

La filosofia dell'induismo
Peculiare dell'induismo è il suo intimo legame con la filosofia e con la scienza in generale (sia scienze sociali che fisiche). Contrariamente all'Occidente, in cui infatti numerosi furono i conflitti ed i punti di attrito tra Scienza e Religione, l'induismo accetta e digerisce ogni nuova scoperta, inglobandola nel proprio sistema filosofico.
In un testo di mitologia sono così presenti informazioni di teologia, astronomia, filosofia e molto altro ancora: leggere un Purāna (ad es. il Bhâgavata-purâna) è prima di tutto leggere un'enciclopedia.
Gli studiosi distinguono due filoni filosofici principali: le filosofie astika, che riconoscono l'autorità dei Veda (ossia le sei darshana: Samkhya, Nyaya, Vaisheshika, Purva Mimamsa, Yoga e Vedānta), e le filosofie nastika, che invece li respingono (Giainismo, Buddhismo, Chârvâka ed Ateismo).

Vedānta
Il Vedānta è uno dei sei sistemi ortodossi (darshana) della filosofia indiana, nonché quello che costituisce la base della maggior parte delle scuole moderne dell'Induismo. "Vedānta" significa in sanscrito la "conclusione" (anta) o "summa" dei Veda, la letteratura sacra più antica dell'India, e si basa sull'interpretazione mistica e cosmologica contenuta in questi testi, che accolgono tutta la Scienza sacra e tradizionale induista. Il termine Vedānta si utilizza in riferimento alle Upaniṣad, che erano elaborazioni dei Veda, ed alle scuole nate dallo studio (Mimamsa) delle Upaniṣad. Così per Vedānta si intende anche il Vedānta-Mimamsa (riflessione sul Vedānta), Uttara-Mimamsa (riflessione sulla parte finale dei Veda) e Brahma-Mimamsa (riflessione sul Brahman).
Oltre ai Veda, i tre testi fondamentali del Vedānta sono:
le Upaniṣad (le più note, ampie e antiche delle quali sono la Brhadaranyaka, la Chandogya, la Taittiriya e la Katha);
il Vedānta Sutra (anche denominato Brahma Sutra), che sono anche delle brevi, persino singole interpretazioni di una sola parola della dottrina del Upanisad;
la Bhagavad Gita (lett. Canto del Divino), celeberrimo testo filosofico-religioso in forma poetica, considerato l'essenza di tutte le scuole di pensiero induiste; contiene una serie di insegnamenti filosofici e spirituali volti a raggiungere la realizzazione spirituale.
Le diverse scuole di pensiero
Nessuna interpretazione dei testi è prevalsa sulle altre, e parecchie scuole Vedānta si sono sviluppate, differenziate dalla loro concezione della natura, della relazione e del grado di identità fra il Sé individuale (jiva) e l'Assoluto (Brahman). Queste spaziano dal monismo o non-dualismo (Advaita) del filosofo Adi Shankara (VIII secolo), al dualismo qualificato o teismo (Vishi-stadvaita) XI-XII secolo di Ramanuja, al dualismo (Dvaita) (XIII secolo) di Madhva.
Tutte le scuole Vedānta, tuttavia, mantengono in comune un certo numero di principi:
la trasmigrazione del Sé (Saṃsāra) e l'opportunità della liberazione dal ciclo delle rinascite (moksha);
l'autorità dei Veda sulle modalità di liberazione;
che il Brahman è sia la causa materiale (upadana) che quella strumentale (nimitta) del mondo;
che il Sé (Ātman) è l' agente dei propri atti (karma) e quindi il destinatario dei frutti o delle conseguenze delle azioni (phala).
L'influenza del Vedānta sul pensiero indiano è stata profonda.
A causa della preponderanza di testi Advaita, in Occidente si ha spesso l'errata convinzione che Vedānta significhi Advaita, mentre questa corrente non-dualistica è solo una delle molte scuole vedantine, benché forse la più importante.
Alcuni concetti del Vedānta
Il Vedānta contiene gli elementi di conoscenza facenti parte della via di conoscenza che l'individuo percorre per migliorare sé stesso. Tali principi riconoscono un unico Principio creatore, onnipotente e onnipresente: Brahman, diretto ispiratore e rivelatore dei Veda; essi forniscono, col loro insegnamento il mezzo per superare l'ignoranza e realizzare la Conoscenza Divina (vidya).
I Veda distinguono tre piani fondamentali di esistenza che sono uno il riflesso dell'altro:
Il primo è il piano divino, principio del tutto
il secondo è il mondo intermedio delle energie e degli archetipi
il terzo è il mondo manifesto della materia.
Ogni piano interagisce con gli altri due, infatti dal Brahman nasce un Impulso Creatore che trasforma un'energia potenziale in materia.
In quest'ordine discendente gli induisti definiscono il rapporto tra Dio e uomo o la relazione tra Macrocosmo (cio che fa parte della sfera universale) e il Microcosmo (cio che fa parte della sfera umana). La corrispondenza tra Microcosmo e Macrocosmo è definita da Principi Coordinatori. Il fine supremo dell'uomo è di ricongiungersi al suo principio, il Brahman, liberandosi dai vincoli della materia. La riconquista di questo stato primordiale significa la realizzazione dell'Individualità "integrale", che va oltre ai limiti che i cinque sensi, la vita e il tempo pongono all'uomo. Per intraprendere questo obiettivo spirituale, la dottrina indù offre alcune vie di realizzazione spirituale dette Darshana (tra cui lo Yoga, fondata sullo studio dei chakra e degli altri centri vitali dell'essere umano). Le altre Darshana, oltre al Vedānta e allo Yoga, sono il Nyaya, Vaisesika, Sankhya, Mimamsa.

Darshana
La filosofia induista è tradizionalmente concepita attraverso sei differenti sistemi o darshana (dalla radice sanscrita drs, cioè "vedere" - traducibile letteralmente come punto di vista), che tentano nel periodo classico dell'India (dal 550 a.C. al 1000 d.C. circa) di riorganizzare ed interpretare l'immensa mole di informazioni prodotta dal periodo precedente: il periodo Vedico.
Più che altro il darshana rappresenta, così come indica il suo significato etimologico, un "punto di vista", ossia una possibilità di approccio ad uno o più degli aspetti filosofici, devozionali, metafisici e ritualistici emersi in un'epoca che affonda le sue radici nel mito. Ogni dharshana rappresenta quindi un punto di vista metafisico della filosofia indiana, scaturito dalla sapienza vedica: nessun darshana, cioè, inventa autonomamente un sistema, ma produce un approccio particolare ad un tema o aspetto già apparso nei Veda.

Le Sei Scuole di Pensiero Vediche
Samkhya
Il Samkhya (o Sankhya) è ritenuta la più antica delle sei Scuole di Pensiero ortodosse della religione induista (dette Darshana).
Secondo questa filosofia, l'Universo consiste di due realtà eterne: Purusha e Prakriti. Purusha è il principio spirituale, l'anima, eternamente cosciente e priva di qualsiasi attributo o caratteristica. Le anime (i Purusha, appunto) sono spettatori, testimoni silenziosi di Prakriti (la materia, o natura) che è costituita da tre influenze principali (Guna): Sattva, Rajas e Tamas (rispettivamente stabilità, attività e indolenza). Quando l'equilibrio tra i guna viene alterato, il mondo manifesto evolve. Quasta alterazione è dovuta alla vicinanza tra Purusha e Prarkriti. la natura è insomma agente, ma non cosciente; al contrario, l'anima umana è conoscente ed in particolare contemplativa, ma non agisce. La Liberazione (Kaivalya) consiste quindi nel realizzare la differenza tra i due.
Nyaya
Nyaya è il nome di una delle sei Darshana, o Scuole di Pensiero ortodosse (astika) della religione induista.
Nyaya è una scuola di speculazione filosofica (divenuto solo in seguito un sistema metafisico) che si basa su testi conosciuti come Nyaya Sutra, che furono scritti da Aksapada Gautama, nel II secolo a.C.. Il contributo più rilevante apportato dal Nyaya all’Induismo moderno consiste nella metodologia; quest’ultima è basata su un sistema logico che in seguito fu adottato dalla maggior parte delle altre scuole induiste (ortodosse o non), similmente al modo in cui scienza, religione e filosofia occidentali possono considerarsi basate sulla logica aristotelica.
Nyaya però differisce dalla logica aristotelica, in quanto non è semplicemente una logica fine a sé stessa. Secondo questa scuola di pensiero, ottenere una valida conoscenza è l’unico modo per ottenere la liberazione dalla sofferenza; l’unica conoscenza autentica è quella che non potrà mai essere soggetta a dubbio o contraddizione, quella che riproduce l’oggetto per ciò che realmente è, e che pertanto permette di percepire la realtà in maniera veritiera e fedele. Solamente questa può considerarsi vera conoscenza, ed è contrapposta al ricordo e al dubbio, così come al ragionamento puramente ipotetico e, quindi, incerto.
Vaisheshika
Vaiśeshika è uno dei 6 Darśana della filosofia indiana, codificato da Kanāda; costituisce la "dottrina distintiva", l'analisi dell'esistente.
Questo Darśana è diretto alla conoscenza delle cose singole in quanto tali, considerate in modo distintivo nella loro esistenza contingente e può essere definito come un realismo atomistico pluralista. Esso cerca di difenire i caratteri generali delle cose osservate e postula sei categorie (padārtha) tramite le quali "classifica" la molteplicità della manifestazione: sostanza (dravya), qualità (guna), azione (karma), generalità (sāmānya), particolarità (aviśes), inerenza (samavāya). Come per ogni altra darśana, la sua ricerca della verità delle cose è sempre rivolta a liberare la coscienza dell'individuo imprigionata nell'ignoranza.
Yoga
Dalla radice sanscrita yuj che significa "unione" o "vincolo", Yoga indica l'insieme delle tecniche che consentono il congiungimento del corpo, della mente e dell'anima con Dio (o Paramatma). Colui che segue e pratica il cammino dello Yoga è chiamato yogi o yogin.
La prima grande opera indiana che descrive e sistema le tecniche dello Yoga è lo Yoga Sutra (Aforismi sullo Yoga), redatto da Patanjali, che raccoglie 185 aforismi. Gli studi tradizionali indiani identificavano Patanjali con l'omonimo grammatico vissuto nel III secolo a.C. ma studi filologici più moderni hanno postdatato la redazione dell'opera ad un epoca presumibilmente altomedievale.
Patanjali indica al praticante gli 8 stadi (o arti) dello Yoga, cioè gli otto passi che conducono all'unione con Paramatma:
1) Yama - comandamenti morali
2) Niyama - autopurificazione
3) Asana - posizioni
4) Pranayama - controllo del respiro
5) Pratyahara - emancipazione della mente
6) Dharana - concentrazione
7) Dhyana - meditazione
8) Samadhi - stato di coscienza superiore (unione con Paramatma)
Purva Mimamsa (Mimamsa)
L'obiettivo principale della scuola del Purva Mimamsa è quello di stabilire con forza l'autorità dei Veda. Il contributo più rilevante della scuola, di conseguenza, è quello di avere formulato delle regole d'intepretazione dei Veda. I suoi aderenti hanno creduto fermamente che la vera conoscenza fosse provata con evidenza, ed hanno cercato di scoprire la base del ritualismo vedico attraverso la ragione. La Mimansa forma la base del ritualismo nell'induismo contemporaneo, che appare spesso affatto politeista.
Uttara Mimamsa: le tre Scuole del Vedānta
Il Vedānta è uno dei sei sistemi ortodossi (darshana) della filosofia indiana, nonché quello che costituisce la base della maggior parte delle scuole moderne dell'Induismo. "Vedānta" significa in sanscrito la "conclusione" (anta) o "summa" dei Veda, la letteratura sacra più antica dell'India, e si basa sull'interpretazione mistica e cosmologica contenuta in questi testi, che accolgono tutta la Scienza sacra e tradizionale induista. Il termine Vedānta si utilizza in riferimento alle Upaniṣad, che erano elaborazioni dei Veda, ed alle scuole nate dallo studio (Mimamsa) delle Upaniṣad. Così per Vedānta si intende anche il Vedānta-Mimamsa (riflessione sul Vedānta), Uttara-Mimamsa (riflessione sulla parte finale dei Veda) e Brahma-Mimamsa (riflessione sul Brahman).
Oltre ai Veda, i tre testi fondamentali del Vedānta sono:
le Upaniṣad (le più note, ampie e antiche delle quali sono la Brhadaranyaka, la Chandogya, la Taittiriya e la Katha);
il Vedānta Sutra (anche denominato Vedānta Sutra), che sono anche delle brevi, persino singole interpretazioni di una sola parola della dottrina del Upanisad;
la Bhagavad Gita (lett. Canto del Divino), celeberrimo testo filosofico-religioso in forma poetica, considerato l'essenza di tutte le scuole di pensiero induiste; contiene una serie di insegnamenti filosofici e spirituali volti a raggiungere la realizzazione spirituale.
Nessuna interpretazione dei testi è prevalsa sulle altre, e parecchie scuole Vedānta si sono sviluppate, differenziate dalla loro concezione della natura, della relazione e del grado di identità fra il Sé individuale (jiva) e l'Assoluto (Brahman). Queste spaziano dal monismo o non-dualismo (Advaita) del filosofo Adi Shankara (VIII secolo), al dualismo qualificato o teismo (Vishi-stadvaita) XI-XII secolo di Ramanuja, al dualismo (Dvaita) (XIII secolo) di Madhva.
Tutte le scuole Vedānta, tuttavia, mantengono in comune un certo numero di principi:
la trasmigrazione del Sé (Saṃsāra) e l'opportunità della liberazione dal ciclo delle rinascite (moksha);
l'autorità dei Veda sulle modalità di liberazione;
che il Brahman è sia la causa materiale (upadana) che quella strumentale (nimitta) del mondo;
che il Sé (Ātman) è l' agente dei propri atti (karma) e quindi il destinatario dei frutti o delle conseguenze delle azioni (phala).
Monismo: Advaita Vedānta
L'Advaita Vedānta è probabilmente la più conosciuta fra tutte le scuole Vedānta della religione Induista. Letteralmente il termine Advaita significa "non duale", ma viene anche utilizzato per indicare il sistema monistico su cui si fonda il principio dell'indivisibilità del Se o Ātman dall'Unità (Brahman). I testi fondamentali da cui derivano i Vedānta sono le Upaniṣad, o commenti ai Veda, e i Vedānta Sutra, anche conosciuti come Vedānta Sutra, nei quali si concentra la discussione sulla natura intima delle Upaniṣad.
Il primo grande unificatore dell'Advaita Vedata fu Adi Shankara (788-820). Proseguendo la linea di pensiero di alcuni maestri Upaniṣad e in particolare di Gaudapada, Shankara espose la dottrina dell'Advaita, come realtà non duale e natura illusoria del mondo e stabilì la suprema verità dell'Advaita: la realtà non-duale di Brahman, nel quale l'Ātman (l'anima individuale) e Brahman, la realtà ultima espressa nella Trimurti, si uniscono nell'Assoluto. Brahman è immanente e trascendente, non solo come concetto panteistico e pur essendo Brahman la causa materiale del cosmo, esso non è limitato dalla sua proiezione, ma trascende la dualità e gli opposti, soprattutto nella forma e nell'essere, essendo la sua natura intima incomprensibile dalla mente umana.
I trattati sulle Upaniṣad, la Bhagavad Gita e i Vedānta Sutra, sono i testamenti di una mente acuta e intuitiva che non ammetteva dogmi; Adi Shankara affermava che un devoto, solo attraverso l'altruismo disinteressato e l'amore, governati dalla discriminazione (viveka) è in grado di andare verso la liberazione (moksha) e di realizzare il Sé interiore, mentre il solo discernimento e l'astratto filosofeggiare non avrebbero portato a nessun risultato.
La filosofia Advaita considera la natura e tutto il fenomeno dell'universo come una sovrapposizione che vela il suo immutevole, trascendente e intelligente Substrato. L'universo è in continuo divenire, è incostante ed impermanente, mentre l'Assoluto che è il substrato che lo sottende, non diviene, è costante e permanente. Secondo la sapienza upanishadica, l'errore di considerare reale ciò che è solo una sovrapposizione al Reale è simile allo scambiare la corda per il serpente, è l'illusione (Maya) determinata dall'ignoranza metafisica (avidya) da cui deriva il dolore dell'essere umano. Nella Tradizione Vedānta, questa illusoria percezione del divenire è attribuita all'identificazione con le forme manifeste che rende inconsapevoli e separati dal Reale e dalla sua serena immutabile stabilità.
Il compito supremo dell'essere umano è quello di penetrare il velo illusorio della realtà (Maya) per rivelare la vera natura, che non è perenne cambiamento tra vita e morte, ma perfezione assoluta e gioia eterna. Se noi conoscessimo i veri motivi che stanno dietro le nostre azioni e i nostri pensieri, diverremmo consapevoli della fondamentale unità dell'essere. Ma come può una mente limitata comprendere l'illimitatezza del Sé? In realtà non può, ma tuttavia è in grado di trascendere la mente e unirsi all'Assoluto.

L'induismo nel mondo
L'India, le Mauritius ed il Nepal sono nazioni a maggioranza induista. Il Nepal è l'unica nazione in cui l'induismo sia la religione ufficiale.
L'Asia del Sud Est è diventata in larga parte induista dopo il III secolo, e fece parte dell'Impero Chola intorno al XI secolo. Quest'inlfuenza ha lasciato numerose tracce architettoniche, come la famosa città-tempio di Angkor Vat o tracce culturali come le danze del Bharata Natyam e del Kathakali. L'isola di Bali è a maggioranza induista, nel mezzo dell'arcipelago indonesiano, a maggioranza islamica. La stessa Indonesia ha conservato come proprio simbolo nazionale Garuda, il gigantesco uccello che trasporta Viṣṇu.
Si trovano altresì minoranze induiste in molti paesi: Bangladesh (11 milioni), Myanmar (2,1 milioni), Sri Lanka (2,5 milioni), Stati Uniti (1,7 milioni), Pakistan (1,3 milioni), Sud Africa (1,2 milioni), Gran Bretagna (1,2 milioni), Malesia (1,1 milioni), Canada (0,7 milioni), Fiji (0,5 milioni), Trinidad e Tobago (0,5 milioni), Guyana (0,4 milioni), Paesi Bassi (0,4 milioni) e Suriname (0,2 milioni) italia (0.5 milioni).
Saggi e mistici indiani
(in ordine alfabetico)
A.C. BhaktiVedānta Swami Prabhupada
Adi Shankara
Sri Aurobindo
Babaji
Caitanya Mahaprabhu
Gurumayi Chidvilasananda
Jay Kali Brahma Mahi Tara Mahakala Vinasini di Samsa Bonomali, West Bengal
J. Krishnamurti
Kirpal Singh
Lahiri Mahasaya
Langta Baba
Mâ Ananda Moyî
Mahatma Gandhi
Mata Amritanandamayi Devi
Paramahamsa Yogananda
Patanjali
Râmakrishna
Râmana Maharshi
Râmdâs
Sri Yukteswar
Sri Sathya Sai Baba
Sri Swami Sivananda
Swami Muktananda
Vivekananda

TESTI SACRI

MAHABHARATA
Il Mahābhārata (lett. La grande storia dei figli di Bharata), a volte chiamato semplicemente Bharata, è uno dei più grandi poemi epici della mitologia induista, insieme al Ramayana, oltre ad uno dei testi sacri più importanti di questa religione.
Nella maggiore edizione pervenuta ai giorni nostri, il Mahābhārata consta di circa 110.000 strofe (corrispondenti a 4 volte la Bibbia, o ad 8 volte Iliade e Odissea messe insieme), divise in 18 libri (o Parva), che ne fanno l'opera più imponente non solo della letteratura indiana, ma dell'intera letteratura mondiale.
Origini ed autori
Si narra che il poema sia opera del saggio Vyāsa, che include sé stesso tra i più importanti personaggi dinastici del racconto. La prima parte del Mahābhārata dichiara che fu il Deva Gaṇeśa, su richiesta di Vyāsa, a scrivere il poema sotto la sua dettatura; Gaṇeśa acconsentì, ma solo alla condizione che Vyāsa recitasse il poema ininterrottamente, senza alcuna pausa. Il saggio, allora, pose a propria volta una ulteriore condizione: Gaṇeśa avrebbe non solo dovuto scrivere, ma comprendere tutto ciò che udiva ancor prima di scriverlo. In questo modo Vyāsa avrebbe potuto riprendersi un poco dal suo continuo parlare, semplicemente recitando un verso difficile da capire. A questa situazione fa riferimento anche una delle storie che spiegano il modo in cui si ruppe la zanna sinistra di Gaṇeśa (elemento essenziale della sua iconografia): nella foga della scrittura il suo pennino si ruppe, ed egli si spezzò una zanna affinché la trascrizione potesse andare avanti senza interruzioni, così da permettergli di mantenere la parola data.
Si ritiene che il Mahābhārata derivi da un originale lavoro molto più breve, chiamato Jaya (Vittoria). La collocazione temporale degli eventi qui descritti non è chiara: alcune persone li collocano con una certa sicurezza nell'India Vedica, attorno al 1400 a.C.. Gli studiosi hanno analizzato gli eventi astronomici descritti nel Mahābhārata (ad esempio, le eclissi) datando i fatti al 1478 a.C. circa, o in alternativa al 3100 a.C.. In ogni caso, è importante ricordare che la ricerca di una datazione esatta degli avvenimenti descritti nel Mahābhārata è di importanza secondaria rispetto all'imponente contenuto filosofico, etico e culturale dell'opera, e alla sua posizione all'interno della letteratura sanscrita classica.
Come la maggior parte della letteratura indiana antica, anche il Mahābhārata veniva trasmesso oralmente, di generazione in generazione. Questo ha reso particolarmente facile l'interpolazione di storie ed episodi addizionali all'interno del testo; si parla anche di variazioni locali, sviluppatesi in regioni diverse. Comunque, nella maggior parte dei casi le modifiche sono consistite in ulteriori aggiunte, e non in alterazioni della storia originale.
La storia
Il poema ha una struttura molto complessa, raccoglie numerose storie e leggende che costituiscono buona parte del ricco patrimonio mitologico indiano.
La trama principale dell'opera è la lunga storia dei discendenti di Bharata, i cugini Kaurava e Pandava, i cui contrasti culminarono in una sanguinosa guerra durata 18 giorni, portandoli a decidere sul campo di battaglia di Kurukshetra le sorti del regno di Hastinapura.
La parte sicuramente più celebre del Mahābhārata è la Bhagavad Gita (lett. Il canto del Beato), dialogo in cui Kṛṣṇa, l'incarnazione Divina, assiste l'eroe Arjuna impartendogli una serie di insegnamenti volti a raggiungere la realizzazione spirituale.
I "Parva" del Mahābhārata
Cap. 1: Adi Parva - libro delle origini
Cap. 2: Sabha Parva - libro della grande sala
Cap. 3: Aranyaka Parva - libro della foresta
Cap. 4: Virata Parva - libro di Virata
Cap. 5: Udyoga Parva - libro dei tentativi di pace e dei preparativi per la guerra
Cap. 6: Bhisma Parva - libro di Bhisma
Cap. 7: Drona Parva - libro di Drona
Cap. 8: Karna Parva - libro di Karna
Cap. 9: Shalya Parva - libro di Shalya
Cap. 10: Sauptika Parva - libro dell'assassinio dei dormienti
Cap. 11: Stri Parva - libro delle donne
Cap. 12: Shanti Parva - libro della pace
Cap. 13: Anushena Parva - libro degli insegnamenti
Cap. 14: Asvamedhika Parva - libro del sacrificio del cavallo
Cap. 15: Ashramavasika Parva - libro della vita nell'Ashram
Cap. 16: Mausala Parva - libro delle mazze
Cap. 17: Mahaprasthanika Parva - il libro della grande dipartita
Cap. 18: Svarga Parva - libro del Paradiso

RAMAYANA
Il Rāmāyaṇa (dal sanscrito, lett. il viaggio - ayana- di Rama), insieme al Mahābhārata è uno dei più grandi poemi epici della mitologia induista, oltre ad uno dei testi sacri più importanti di questa tradizione religiosa e filosofica.
Narra le avventure di Rama, avatar di Viṣṇu, ed è una delle Itihasa, le scritture epiche indiane.
Introduzione
L’epos rāmaico consta di 24.000 śloka (versi), 86.000 in meno rispetto al più complesso ‎Mahabharatha, suddivisi in oltre cinquecento sarga ‎ (sezione di testo) distribuiti in ‎sette libri (kānda), di cui il primo (Bāla-kānda) e il settimo (Uttara-kānda) sono ‎considerati, a giudizio unanime della critica, delle addizioni seriori.
Il nucleo ‎originario dell’intera opera è costituito dai kānda II-VI, e seppure siano anche qui ‎individuabili evidenti interpolazioni e aggiunte, non si può non notare la coerenza, ‎l’omogeneità e l’organicità di stile, di contenuto e di struttura, a tal punto da fare ‎pensare ad un unico autore, ipotesi per altro accreditata dalla tradizione che ha ‎sempre attribuito al saggio Vālmīki ‎ la paternità dell’opera. La redazione definitiva ‎del poema si fa risalire al I-II secolo d.C.: esso, infatti, è anteriore alla redazione ‎definitiva del Mahābhārata ‎, ma si ritiene che la sua forma originaria possa ‎risalire al IV - III secolo a.C.(epoca Maurya), se non addirittura al VI secolo a.C.
Il Rāmāyana, proprio come i poemi omerici, può essere considerato come un ‎serbatoio o una raccolta dell’insieme delle conoscenze e dei modelli culturali di ‎un’intera civiltà. L’epos rāmaico pertanto svolge una funzione educativa ‎adempiendo in pieno, essendo depositario del sapere collettivo, al suo compito ‎didattico-paradigmatico. Eppure questo deposito o “sedimento ereditario”, ‎trasmesso dalla tradizione orale, non va inteso come patrimonio ‎omnicomprensivo, ma piuttosto come stratificazione e sovrapposizione ‎progressiva di un materiale storico, mitico, aneddotico e geografico che nel corso ‎dei secoli è stato ricucito in una raccolta organica divenuta sintesi e simbolo dei ‎contenuti culturali, religiosi e filosofici di un’intera civiltà.
In questo senso Rāma, ‎non è solo il protagonista dell’epos narrato, bensì il nome dato ad un codice di ‎comportamento morale, religioso, politico, e sociale che appartiene ad una fase ‎precisa della civiltà indiana. Ciò significa che il poema rāmaico non solo “descrive, ‎ma “prescrive”, attraverso il fulgido esempio di Rāma e Sītā come archetipi di ‎perfezione e di adesione al dharma, un modello di condotta morale e etica da ‎imitare e interiorizzare. La narrazione di questi eventi mitici ci è giunta grazie alle ‎eleganti strofe di Vālmīki che, con il suo stile raffinato ed erudito, sembra ‎anticipare gli elaborati componimenti di epoca classica (Kāvya), ossia un ‎particolare tipo di letteratura caratterizzata da lunghissime descrizioni, ‎sorprendenti paragoni e metafore, giochi di parole e ostentazioni di dottrina, rime ‎interne e tutto un repertorio di ricercatezze formali e ornamenti stilistici ‎‎(alamkāra) che inducono gli studiosi ad ipotizzare una matrice di natura ‎aristocratica e a individuare nelle corti e nelle cerchie di intellettuali il luogo ‎privilegiato di irradiazione di questo nuova e sapiente produzione letteraria. ‎Anche gli indologi sono unanimi nell’accettare il dato della tradizione che assegna ‎al veggente (rishi) Vālmīki la composizione del poema o, almeno, di quello che è ‎ritenuto il suo nucleo originario, nonostante il nome del veggente venga citato ‎solo esclusivamente nelle due sezioni, la prima e la settima, notoriamente ‎considerate spurie.‎ In ogni caso il celebre rishi non avrebbe fatto altro che ‎rielaborare e ricucire gli antichi materiali relativi all’eroe Rāma, tramandati dai ‎bardi o cantori itineranti (cārana, kuśīlava), dei quali abbiamo traccia anche in ‎tradizioni esterne alla cultura brahmanica, come quella buddhista e quella jaina‎.
Il Rāmāyana è giunto a noi in tre recensioni‎,ossia l'edizione di Bombay, ‎probabilmente la più antica e detta, dallo Jacoby, C, la bengalese o Gauda (B) e ‎la Kaśmiriana o nord-occidentale (A). Tutte e tre le recensioni ‎, seppure ‎differiscano per intere sezioni e persino per discrepanze di contenuto, sono ‎suddivise in sette kānda e offrono ad ogni modo una visione omogenea e ‎coerente dello svolgimento dell’azione principale. Ogni kānda origina il proprio ‎nome dalla natura della materia trattata.‎
La storia
Il poema narra la storia di Rama, settimo Avatar di Viṣṇu, sovrano ideale e guerriero valoroso, e della sua sposa, Sita. Rama, principe ereditario del regno di Koshala viene privato ingiustamente del diritto al trono ed esiliato dalla capitale Ayodhya. Rama trascorrerà 14 anni in esilio, insieme alla moglie Sita ed al fratello Lakshmana, dapprima nei presi della collina di Citrakuta, dove si trovava l’eremo di Valmiki e di molti altri saggi, in seguito nella foresta Dandaka, popolata da molti demoni (rakshasa). Lì Sita viene rapita dal crudele re dei demoni, Ravana, che la conduce nell’isola di Lanka. Rama e Lakshmana si alleano con i Vanara, potente popolo di uomini-scimmia, ed insieme ai guerrieri scimmia, tra i quali c’è il valoroso e fedele Hanuman costruiscono un ponte che collega l’estremità meridionale dell’India con Lanka. L’esercito affronta l’armata dei demoni, e Ravana viene ucciso in duello da Rama, che torna vittorioso nella capitale Ayodhya, e viene incoronato re. Rama, per rispettare il dharma, è costretto a ripudiare Sita, a causa del sospetto che abbia ceduto alle molestie di Ravana. Per dare prova della sua purezza, Sita accetta di sottoporsi alla prova del fuoco, ed esce indenne dalle fiamme.
I sette "Kanda" del Ramayana
Cap. 1: Bala Kanda
Il primo libro, Bāla-kānda (“Libro dell’infanzia”), narra ‎dell’infanzia di Rāma e di quando suo padre Daśaratha, re di Ayodhiyā, ‎onorò gli dèi compiendo l’antico rito propiziatorio dell’aśvamedha, ‎‎“sacrificio del cavallo”, al fine di assicurarsi una discendenza. Gli dèi, ‎soddisfatti dell’offerta ricevuta, accettano la richiesta del vecchio re. ‎Visnu si incarna nel grembo delle tre mogli di Daśaratha: la prima moglie ‎dà alla luce Rāma, la seconda Bharata e la terza moglie due figli, ‎Laksmana e Śatrughna. I figli del re Daśaratha, in quanto concepiti con ‎l’aiuto di una divinità, sono tutti e quattro espressioni di Visnu, ma solo in ‎Rāma il dio si compiace, e manifestandosi nel supremo atto ‎dell’incarnazione, attua il proprio piano salvifico: sarà, infatti, Rāma a ‎liberare il mondo dal terribile demone Rāvana, ristabilendo l’ordine e il ‎dharma. Il libro narra minuziosamente tutte le imprese compiute dal ‎giovane principe, tra queste spicca la gara dell’arco nella quale Rāma ‎vince la mano della giovane principessa Sītā, figlia del re Janaka. Il libro ‎si chiude con il matrimonio di Rāma con la bella Sītā e con il loro viaggio ‎verso Ayodhyā, regno di Daśaratha e loro futura casa.‎
Cap. 2: Ayodhya Kanda
‎Il secondo libro, Ayodhyākānda (“Libro di Ayodhyā”), narra della ‎successione al trono di Ayodhiyā. Il re Daśaratha, infatti, è ormai molto ‎vecchio e stanco e intende affidare la cura del proprio regno al valoroso ‎primogenito Rāma, ma la madre di Bharata ricorda al re, suo marito, ‎l’antica promessa di due doni e chiede che vengano esauditi due suoi ‎desideri. Il primo dono consiste nella richiesta di far salire al trono il figlio ‎Bharata a scapito di Rāma, primogenito e legittimo pretendente al trono. ‎La seconda e più grave richiesta è quella di mandare Rāma in esilio per ‎almeno quattordici anni. Il re costretto dall’astuta moglie alla fedeltà della ‎promessa fatta, accetta a malincuore e manda in esilio Rāma, ‎preferendogli il fratello Bharata come successore al trono. Rāma si ‎allontana quindi da Ayodhiyā, allietato nell’esilio dalla compagnia della ‎devota moglie, Sītā, e dell’amato fratello, Laksmana. Alla morte di ‎Daśaratha, Bharata richiama il fratello dall’esilio, supplicandolo di ‎riprendere il governo del regno ma Rāma non accetta poiché intende ‎restare fedele alla parola data al padre e alle leggi del dharma che non ‎ammettono alcuna disobbedienza. Allora Bharata, deposti i calzari ‎dell’illustre fratello ai piedi del trono in segno di auspicio, governerà come ‎reggente nell’attesa del fausto ritorno di Rāma. ‎
Cap. 3: Aranya Kanda
Il terzo libro, Aranyakānda (“Libro della selva”), racconta dell’esilio di ‎Rāma, Sītā e Laksmana; giunti nella selva Dandaka, incontrano i terribili ‎demoni rāksasa che con la loro presenza infestano la foresta e disturbano ‎gli asceti. Rāma insieme al fratello Laksmana combatte molti demoni, ma ‎la vicenda senza dubbio più importante per il susseguirsi di conseguenze ‎è quella in cui i due fratelli lottano contro la demone Śūrpnakhā che, ‎mutilata in battaglia da Laksmana, chiederà aiuto e vendetta al fratello ‎Rāvana, potente demone e re dell’isola di Lankā. Rāvana, per riparare ‎all’offesa fatta alla sorella, ricorrendo agli inganni e alla magia, rapisce ‎Sītā e la nasconde a Lankā, suo inespugnabile regno. Rāma, afflitto dalla ‎perdita della propria sposa, cerca aiuto e sostegno in Sugrīva, re delle ‎scimmie e capo di un potente esercito.‎
Cap. 4: Kiskindha Kanda
Il quarto libro, Kiskindhākānda (“Libro della caverna della Kiskindhā”), ‎narra della strategica alleanza di Rāma con Sugrīva, suggellata da un ‎patto di aiuto reciproco: Rāma aiuterà Sugrīva a sconfiggere il terribile ‎fratello Vālin, usurpatore del trono, e in cambio Sugrīva promette a Rāma ‎di assisterlo nella disperata ricerca di Sītā. Hanūmat, valido consigliere di ‎Sugrīva, riesce a rintracciare il luogo in cui è tenuta prigioniera la ‎principessa.‎
Cap. 5: Sundara Kanda [modifica]
Il quinto libro, Sundarakānda (“Libro bello”), racconta della missione di ‎Hanūmat; costui, dopo varie peripezie, riesce a parlare con la principessa ‎e dopo averla confortata, ritorna all’accampamento delle scimmie dove ‎informa Rāma dei progressi raggiunti e del buon esito della spedizione‎
Cap. 6: Yuddha Kanda
Il sesto libro, Yuddhakānda, (“Libro della battaglia”) narra della guerra ‎contro i demoni e della liberazione di Sītā. L’esercito delle scimmie tiene ‎in scacco l’isola di Lankā, ma l’attacco finale viene rimandato per ‎iniziativa del fratello di Rāvana che, temendo la potenza di Rāma, tenta ‎una mediazione promettendo di restituire la principessa. La mediazione ‎non va a buon fine e si giunge così alla battaglia conclusiva in cui Rāma, ‎in un terribile duello, ucciderà Rāvana, ricongiungendosi finalmente ‎all’amata Sītā. Ma la felicità, tra i due augusti sposi dura poco, infatti, ‎Rāma ripudia la moglie perché teme che il lungo tempo trascorso da Sītā, ‎seppure in cattività, con il demone Rāvana abbia compromesso la sua ‎castità. L’unico modo per fugare i dubbi di Rāma sulla condotta di Sītā è ‎la prova del fuoco. Sītā, casta e devota sposa, si sottopone per amore a ‎tale prova e il dio Agni la proclama innocente e priva di macchia e la ‎consegna alle cure del suo sposo, Rāma.‎
Cap. 7: Uttara Kanda
Il settimo libro, Uttarakānda (“Libro finale”) descrive le ulteriori prove a ‎cui è sottoposta Sītā per dimostrare la sua purezza. Infatti, al ritorno ad ‎Ayodhyā il popolo non condivide la scelta di Rāma di accettarla come ‎consorte, la principessa è nuovamente costretta a difendersi da ingiuste ‎accuse e a confermare ulteriormente la propria devozione all’amato ‎marito. Sītā, dopo aver superato la prova del fuoco, è sottoposta ad ‎un’altra ardua prova, ossia quella dell’esilio; ella è, infatti, costretta a ‎separarsi da Rāma per mettere a tacere le illazioni e i dubbi di alcuni ‎sudditi. Sītā allora trova rifugio nell’eremo di un rishi, Vālmīki per l’appunto, ‎e lì dà alla luce due gemelli Kuśa e Lava. In seguito i due gemelli, ormai ‎adulti, incontrano Rāma e gli recitano il Rāmāyana, espediente grazie al ‎quale avviene l’agnizione e permette il lieto fine. Rāma riconosce i figli e ‎si dichiara disposto a riprendere come sposa Sītā, a patto che ella sia ‎disponibile ad un ulteriore giuramento sulla sua purezza. Sītā allora prega ‎la dea Terra di accoglierla nel proprio grembo come ultima e definitiva ‎prova della sua eroica castità e dalla sua innocenza. La dea Terra, ‎apertasi, inghiotte la regina nelle sue viscere. A Rāma, prostrato dal ‎dolore per la perdita dell’amata sposa, una voce celeste rivela che egli è ‎un’incarnazione, ossia un avatāra, di Viṣṇu, mentre Sītā lo è di Laksmī. Il ‎libro si conclude con l’ascesa al trono dei due gemelli, Kuśa e Lava, e con ‎Rāma che, asceso al cielo, entra nella maestà e nella luce di Viṣṇu ‎‎(vaisnavam tejah) con il proprio corpo (saśarīrah) e con i propri fratelli ‎‎(sahānujah).

VEDA
I Veda sono un'antichissima raccolta di opere sacre di estrema importanza presso la religione induista, che consistono essenzialmente in canti rituali e recitazioni le quali hanno lo scopo di vitalizzare e spiritualizzare ogni fase della vita e dell'attività dell'uomo. Si ritiene che siano il Testo sacro più antico che sia pervenuto ai giorni nostri.
Il termine "Veda" (dalla radice sanscrita vid, "sapere", "conoscere") significa letteralmente "conoscenza", e sta qui ad indicare la suprema conoscenza di Dio, o Brahman.
Fra tutti gli immensi testi dell'India, i Veda sono le uniche Scritture alle quali non viene attribuito alcun autore. Il Rig Veda riconduce gl'inni ad un'origine celeste e ci dice che essi sono stati tramandati da "tempi antichi" e rivestiti di un linguaggio nuovo. Divinamente rivelati di era in era ai Rishi (considerati dei veri e propri veggenti) i quattro Veda sono detti possedere nityatva, "validità senza tempo".
La suddivisione dei Veda
I Veda sono essenzialmente quattro; l'organizzatore e suddivisore dei Veda, che consentì ai mortali di comprendere la divina conoscenza in essi contenuta, è considerato il mitico saggio Vyāsa, autore del Mahābhārata e dei Purana. Nella tradizione vedica Vyãsadeva viene riconosciuto come un Avatãra di Dio in Persona, uno dei sette principali filosofi dell'India, nonché il più grande filosofo di tutti i tempi, che compilò le scritture vediche per mano di Ganesh, Essere Celeste con la testa di elefante e il corpo di uomo che scrisse questi testi sacri spezzandosi una delle zanne e usandola per scrivere.
Yajur Veda
Lo Yajur Veda è un trattato di formule inerenti al sacrificio. Contiene le formule sacrificali, scritte talvolta come litanie ed erano praticate dall'officiante. Yajus significa "formula sacrificale". È una raccolta di formule che il sacerdote officiante (adhavaryu) recitava durante le varie fasi del sacrificio. È pervenuto ai giorni nostri in 2 versioni; Krsna Yajurveda (yajurveda nero)e Sukla Yajurveda (yajurveda bianco). Sono divisi in sezioni in base al tipo di sacrificio. Sono composti in parte in versi (dal Rg Veda) e in parte in prosa ed è il più antico esempio di prosa letteraria dell'antico indiano.
Sama Veda
Il Sama Veda è un trattato sulla musica in particolare le melodie. Contiene i versi liturgici cantati durante le cerimonie e i sacrifici.
Atharva Veda
L'Atharva Veda è il trattato di medicina e formule magiche. Raccolta di inni e di preghiere, con carattere più popolare considerando i RigVeda; dal punto di vista etnologico offre interessanti notizie in particolare sui i primi rudimenti della medicina Ayuvedica. Ritenuto il testo più recente, fu adottato come manuale rituale dei brahamani, la classe dei sacerdoti addetti ai sacrifici.
Rig Veda
Il Rig Veda è il testo più importante dei quattro perché contiene in forma poetica gli inni che celebrano le divinità induiste o deva, inni i quali sono fondamentali per il sacrificio vedico. La sua redazione scritta è stata datata tra il XV secolo a.C. e il XII secolo a.C.. È suddiviso in dieci mandala, ovvero libri. Vi si trovano tra gli altri inni a questi elementi divinizzati Agni (fuoco), Dyau (cielo), Vayu (vento) e Surya (sole) in quanto presenta l'adorazione a qualsiasi forma di vita e evento naturale. Ma gli inni più numerosi sono dedicati al Dio Indra.
I Veda in occidente
La fortuna dei Veda nel pensiero occidentale è legato in particolare a due autori, Arthur Schopenhauer e Ralph Waldo Emerson, che ne hanno interpretato e assorbito gli insegnamenti in due modi spesso diametralmente opposti: il primo, in direzione della rinuncia al mondo; il secondo, in direzione dell'accettazione del mondo e della vita.

KAMASUTRA
Il Kama Sutra è un antico testo indiano sul comportamento sessuale umano, ampiamente considerato come l'opera più importante nella letteratura sanscrita sull'amore. Il libro è stato scritto da Vatsyayana ed il suo titolo completo è vātsyāyana kāma sūtra ("Aforismi sull'amore, di Vatsyayana"). Si crede che l'autore sia vissuto in un'epoca fra il I ed il VI secolo, probabilmente durante il periodo Gupta.
Il Kama Sutra contiene 35 capitoli, organizzati in sette parti, ognuna delle quali scritta da un esperto nel rispettivo campo. Le parti sono:
Introduzione (4 capitoli) - sull'amore in generale, il suo posto nella vita di un uomo ed una classificazione delle donne.
Sull'unione sessuale (10 capitoli) - una discussione approfondita sul bacio, vari tipi di preliminari, orgasmo, una lista di posizioni sessuali, sesso orale, parafilia, e ménage à trois.
Sull'acquisizione di una moglie (5 capitoli) - corteggiamento e matrimonio.
Su una moglie (2 capitoli) - il comportamento corretto di una moglie.
Sulle mogli degli altri (6 capitoli) - principalmente seduzione.
Sulle cortigiane (6 capitoli).
Sui mezzi per attrarre gli altri a qualcuno (2 capitoli).
Il Kama Sutra contiene un totale di 64 posizioni sessuali anche rappresentate. Vatsyayana credeva che ci fossero otto modi di fare l'amore, moltiplicati per otto posizioni per ognuno. Nel libro queste sono note come le 64 Arti. Il capitolo che elenca le posizioni è il più famoso e per questo è spesso scambiato per l'intera opera.
Comunque, solo circa il 20 per cento del libro è dedicato alle posizioni sessuali. Il resto è una guida su come essere un buon cittadino e parla delle relazioni fra uomini e donne. Il Kama Sutra descrive il fare l'amore come un'unione divina. Vatsyayana credeva che il sesso in sé non fosse sbagliato, a meno che non lo si facesse frivolmente. Il Kama Sutra ha aiutato le persone a godere dell'arte del sesso in maniera più profonda e può essere considerato una guida tecnica al godimento sessuale, oltre a provvedere ad una descrizione dei costumi e delle pratiche sessuali dell'India di quei tempi.
Il Kama (in sanscrito piacere o benessere) non è infatti percepito come un peccato, ma è uno dei quattro scopi della vita (purushartha).
La traduzione inglese più conosciuta del libro è quella del 1883 di Sir Richard Burton.


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